N.01
Gennaio/Febbraio 2017

Chiesa madre: se il tempo è superiore allo spazio

Ricorderai d’avermi atteso tanto,
e avrai negli occhi un rapido sospiro.
(Giuseppe Ungaretti)

Riferirsi alla Chiesa come a madre è un dato tradizionale, con una lunga storia alle spalle, ma come molti dei concetti e delle immagini che utilizziamo da così tanto tempo, è anche, in certo senso e a dispetto del suo ricorrere apparentemente identico, profondamente migrante. Lo è per i diversi contesti in cui è sorto e nel quale viene utilizzato, come si può vedere nella voce sintetica riportata. Lo è anche perché incrocia un immaginario potente, quello materno appunto, nel quale sono implicati desideri profondi, a tratti contraddittori, sempre comunque complessi, che non si possono dare per scontati. Lo è infine perché oggi non possiamo non metterlo in relazione con le traiettorie che delineano un orizzonte importante per la Chiesa cattolica, quali in particolare il ricorso all’idea che il tempo sia superiore allo spazio, cioè che si privilegi l’attivazione di processi rispetto alla ricerca di risultati immediati (EG 222-225).

1. «Ricorderai d’avermi atteso tanto»
Pur avendo a disposizione così tanti testi della tradizione e anche del Magistero più recente, non rinuncio all’approccio letterario già segnalato in esergo, cioè alla poesia scritta da Giuseppe Ungaretti in occasione della morte della madre (1930)1. Legata all’esperienza della vita e della conversione del poeta, riesce a mantenere nelle poche parole la pluralità dei piani: come statua davanti all’eterno e con le braccia aperte in un “eccomi”, è tanto figura profana, quanto specchio di immagini mariane, tra annunciazione, croce e dormizione/assunzione. Per questo l’avere atteso tanto tiene tutto con sé: è in ultima istanza l’attesa della conversione di Ungaretti, attesa che tuttavia non dimentica i giorni passati a scrutare la vita e le scelte di quel figlio con i dolori e le gioie che accompagnano un’esistenza. Ed è l’attesa propria della gravidanza, che dà un senso anche a quelle successive, prolungandosi in certo modo nella vita e oltre: così reale da poter prestare la sua forza alle immagini dell’avvento e del travaglio di parto di tutta la creazione (Rm 8,18-27).
In questa prospettiva si può leggere anche come figura della maternità della Chiesa, sottolineando qui in maniera particolare proprio l’attesa, come desiderio rivolto a chi deve arrivare e insieme capacità di proiettarsi con benevolenza oltre il presente. Per questo motivo si può collegare al principio del «tempo superiore allo spazio», certo urgente quando si parla dei giovani e della cura delle loro vocazioni, anche se valido più ampiamente. Da parte dei giovani essere desiderati vuol dire arrivare in un ambiente caldo, significa essere previsti e stimati, e non piuttosto tollerati o sospettati, magari come disturbatori di un sistema quieto e rassicurante. Da parte degli adulti – qui intesi tutti come madri, pensiamo non se ne offendano – desiderare i giovani è segno che credono in quello che loro stessi adesso stanno facendo, che hanno fiducia che quanto propongono può attraversare i tempi e mantenere la forza suadente che li ha attratti un giorno e che continua a indicare a loro stessi un senso per cui valga la pena vivere e morire.
Siamo tuttavia consapevoli che, come accade nella genitorialità reale, tra la nobiltà di questo desiderio, nel duplice versante attivo e passivo, e le sue realizzazioni concrete ci sono sempre molteplici varchi, dei gap significativi. Al di là della retorica di rito, non è infrequente che questo meccanismo si inceppi e, fuor di metafora, certi modi di “procacciare vocazioni” non possono non suscitare dubbi: non tanto sulla buona fede di chi vi si spende, quanto sull’onestà storica dei progetti, che rischiano di aver bisogno di adepti per mantenersi in vita, più che adoperarsi per offrire loro una vita desiderabile. Non ha senso ovviamente cercare una purezza astratta, né al contrario coinvolgere tutti nella critica: è invece necessario trovare criteri di verifica che possano diventare anche strategie di programmazione. Per questo è preziosa l’indicazione di tenere sotto controllo l’ansia che fa cercare risposte immediate perché non si riesce a vivere di progetti a tempi lunghi. Fare degli esempi rischia sempre di banalizzare il discorso, ma si dovrebbe discernere la differenza fra accogliere l’istanza di modalità coinvolgenti e affettivamente cariche, di comunicazioni veloci e connessioni agili e l’uso strumentale di entusiasmi collettivi e di slogan abbreviati. Il confine è per un verso estremamente labile, perché il discernimento non si applica ai mezzi, ma ai metodi; per altro verso l’equilibrio va cercato al di fuori dei percorsi strettamente vocazionali, ossia in una progettualità ecclesiale più ampia: per tutta la Chiesa e non solo per una sua parte che vuole riprodursi, pensando al futuro dei suoi figli e delle sue figlie e non alla nostra sopravvivenza, disponendosi affabilmente nei confronti di coloro a cui ci rivolgiamo. Sarà questo plesso nella sua interezza – in fondo appunto il progetto di Evangelii gaudium e di Amoris laetitia – a dire la qualità di scommessa per il futuro della formazione ecclesiale.

La madre
E il cuore quando d’un ultimo battito
avrà fatto cadere il muro d’ombra
per condurmi, Madre, sino al Signore,
come una volta mi darai la mano.

In ginocchio, decisa,
Sarai una statua davanti all’eterno,
come già ti vedeva
quando eri ancora in vita.

Alzerai tremante le vecchie braccia,
come quando spirasti
dicendo: Mio Dio, eccomi.

E solo quando m’avrà perdonato,
ti verrà desiderio di guardarmi.

Ricorderai d’avermi atteso tanto,
e avrai negli occhi un rapido sospiro.

Giuseppe Ungaretti, 1930
(in Sentimento del tempo)

2. L’ordine simbolico della madre: risorse e aporie
Prima di proseguire il discorso sui modelli ecclesiali si impone una breve sosta sull’immaginario materno che stiamo utilizzando, il cui uso è tutt’altro che scontato.
Come si è detto sopra, la metafora è intrigante e migrante: in primo luogo perché la stessa immagine di madre si rende disponibile per diverse funzioni ecclesiali, che vanno dal generare nell’evangelizzazione e nel battesimo, al nutrire nell’Eucaristia, al perdonare nell’accoglienza dei figli che vanno cercati, accolti, rimessi in piedi, al vigilare contro gli abusi, ancor di più se perpetrati da padri nella stessa famiglia². Questa duttilità dipende tuttavia non solo dal discorso ecclesiale e dalle sue molteplici esigenze, ma anche dall’immagine utilizzata e dalla prospettiva con cui viene guardata: infatti di mamma ce n’è più d’una³ – come Loredana Lipperini intitola uno studio sui molteplici modi di vivere la maternità nel mondo occidentale – e ci sono anche modalità diverse di presentarne il significato. Possiamo infatti osservare che nell’uso ecclesiale contemporaneo prevalgono gli atteggiamenti benevoli e teneri, spesso intesi anche come correttivo delle forme rigide.
Nelle difficili situazioni che vivono le persone più bisognose, la Chiesa deve avere una cura speciale per comprendere, consolare, integrare, evitando di imporre loro una serie di norme come se fossero delle pietre, ottenendo con ciò l’effetto di farle sentire giudicate e abbandonate proprio da quella Madre che è chiamata a portare loro la misericordia di Dio. In tal modo, invece di offrire la forza risanatrice della grazia e la luce del Vangelo, alcuni vogliono “indottrinare” il Vangelo, trasformarlo in «pietre morte da scagliare contro gli altri» 4.
Certamente questo corrisponde a una visione di Chiesa e ad una interpretazione del Vangelo di grande respiro, che in questo caso si lega al materno. Per il bene di entrambi questi versanti si dovrebbe però porre un’attenzione tutta particolare a non rinchiuderli in un orizzonte sentimentale, quasi che qui stia ogni dolce bontà, mentre per trattare di fondamenti e ragionamenti se ne debbano abbandonare le sponde per navigare altrove, in metafore più virili. Ebbene, questa appare più come una deriva che come un principio materno: nel suo studio ormai classico Luisa Muraro mostra come si debba rintracciare un ordine simbolico della madre5, constatando che solo un sistema di pensiero e di pratiche che releghi le donne in un femminile sottomesso, romantico e funzionale6, può ignorare il fatto che le madri offrono parole, pensiero e significati. Se si tratta di partire dall’esperienza di “più donne che uomini” per assumere maggiore consapevolezza della dimensione emotiva in cui si radicano anche i procedimenti logici, le competenze pratiche e le attitudini argomentative, ben venga7. Evidentemente non andrebbe invece altrettanto bene viverla secondo una certa mistica della femminilità, anche questa ormai ampiamente denunciata nelle sue derive, ma che si ripresenta di frequente, perché è in fondo la proiezione di un desiderio. Da questa breve ricognizione nascono dunque due osservazioni. In primo luogo si dovrebbe star bene attenti a non tradurre un principio materno, anche e forse specialmente in contesto formativo, come accomodante, rassicurante e “senza principi”: le madri – in termini generali – non danno solo affetto, ma anche direzione, sono accoglienti ma anche autorevoli. Nuovamente, fuor di metafora, la Chiesa è materna quando accoglie e anche quando chiede di accogliere gli immigrati e di rovesciare le piramidi ecclesiali; quando comprende in forma empatica e anche quando presenta le esigenze del Vangelo, nella cura della casa comune, nell’ascolto del grido della terra e del grido dei poveri (LS 49). È materna quando non vuole lasciar fuori nessuno dalla casa, e lo è altrettanto quando vigila senza compromessi sugli abusi: non a caso, proprio l’intervento fatto a questo proposito da Papa Francesco trova inizio e titolo nell’espressione “come una madre amorevole”8.
La seconda osservazione è che risulterebbe strano utilizzare in maniera massiccia metafore materne/paterne, e dunque femminili/ maschili, senza almeno iniziare a riflettere pacatamente, ma senza ulteriori ritardi, su come tutto questo si riferisca non a dimensioni fantastiche, ma a soggetti storici e agli immaginari secondo cui vengono rappresentati. Il che vale per le donne – perché certo non stiamo parlando solo di vocazioni maschili – ma vale anche per gli uomini, che possono essere molto migliori delle caricature di virilità che spesso vengono loro gettate addosso come un’armatura pesante e invalidante9. Non è questo il luogo per sviluppare queste considerazioni, ma certo è uno dei luoghi in cui l’urgenza di percorrerle non può essere taciuta.

3. Vocazioni: per quale Chiesa?
Interrotto solo apparentemente il discorso su maternità/generatività/vocazioni/cura per utilizzarne senza troppa ingenuità le metafore ricorrenti, torniamo a considerare l’orizzonte entro cui attivare processi che possono far parte integrante della vita ecclesiale, della sua cura pastorale. «Ci vuole vita per amare la Vita», recita un celebre verso dell’Antologia di Spoon River in cui è proprio una madre, Lucinda Matlock, a lasciare a figli e figlie la consegna di una vita che non si è sottratta a difficoltà e gioie, con prorompente energia. Si può infatti certo convenire che non siano le piccole realizzazioni ad attrarre i giovani, ma quella “misura alta” sulle note della quale abbiamo iniziato il millennio con Giovanni Paolo II. In realtà, porre la programmazione pastorale nel segno della santità è una scelta gravida di conseguenze. Significa esprimere la convinzione che, se il Battesimo è un vero ingresso nella santità di Dio attraverso l’inserimento in Cristo e l’inabitazione del suo Spirito, sarebbe un controsenso accontentarsi di una vita mediocre, vissuta all’insegna di un’etica minimalistica e di una religiosità superficiale.
Chiedere a un catecumeno: «Vuoi ricevere il Battesimo?» significa al tempo stesso chiedergli: «Vuoi diventare santo?». Significa porre sulla sua strada il radicalismo del discorso della Montagna: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48).
Come il Concilio stesso ha spiegato, questo ideale di perfezione non va equivocato come se implicasse una sorta di vita straordinaria, praticabile solo da alcuni “geni” della santità. Le vie della santità sono molteplici e adatte alla vocazione di ciascuno. Ringrazio il Signore che mi ha concesso di beatificare e canonizzare, in questi anni, tanti cristiani, e tra loro molti laici che si sono santificati nelle condizioni più ordinarie della vita. È ora di riproporre a tutti con convinzione questa “misura alta” della vita cristiana ordinaria: tutta la vita della comunità ecclesiale e delle famiglie cristiane deve portare in questa direzione. È però anche evidente che i percorsi della santità sono personali ed esigono una vera e propria pedagogia della santità, che sia capace di adattarsi ai ritmi delle singole persone. Essa dovrà integrare le ricchezze della proposta rivolta a tutti con le forme tradizionali di aiuto personale e di gruppo e con forme più recenti offerte nelle associazioni e nei movimenti riconosciuti dalla Chiesa (NMI 31).
Simile misura non può essere perciò solo nella parola calda che si rivolge ai giovani in alcune occasioni speciali o nella impostazione di vita degli anni della formazione, nel caso dei percorsi specifici per la vita consacrata e per i ministeri ordinati. Esige la conversione pastorale di tutta la comunità ecclesiale, non solo perché questa è la logica che sorregge la sua stessa esistenza, ma anche, più banalmente, perché l’uscita da luoghi caldi verso ambienti freddi dà luogo evidentemente a reazioni depressive.
Anche questo tuttavia chiede alcune precisazioni: sia l’idea di “alto” che di “caldo” indicano un’eccellenza che potrebbe essere intesa come elitaria, perfezionistica e infine irrealistica, dal momento che non si può comandare la santità, né dirigere dall’alto la conversione dei singoli. Per questo è qui importante recuperare l’idea di processo: la Chiesa per la quale è almeno onesto proporre progetti che coinvolgono l’intera vita non è “perfetta”, ma è quella che si pone in cammino “verso”. Questo “verso” ha molteplici direzioni, oggi espresse anche con altre parole e pratiche, ma coerenti con la struttura concettuale del Vaticano II: verso Cristo e il suo Vangelo (DV ), verso il mondo (GS ), verso una sua vita interna evangelicamente compatibile (LG ), con competenza simbolica e celebrativa (SC ).
La forma materna che si è messa sopra in evidenza si può esprimere in questo orizzonte sottolineandone il tratto com/passionevole e forte: una sua cifra è la lezione ecumenica e magisteriale rappresentata dall’inclusione fra Lampedusa e Lesbo10: prendere il largo
(NMI 1) in questa direzione non è perdersi, ma ritrovarsi in un oltre promettente. Così come dal punto di vista della vita comunitaria una forma materna è chiamata a curare le differenze in un orizzonte di comunione: come si è detto, perché le forme specifiche interagiscano nella comunità di tutti, perché la sinodalità nasca nella stima della franchezza e del rispetto delle diverse opinioni, perché nelle differenze (cf Gal 3,28) fra i popoli cosi come fra donne e uomini si accolga la ricchezza operando verso il superamento delle diseguaglianze e della inequità. Non si può toccare solo un punto, ignorando che questo impone di rifare in certo senso l’intera mappa.
Ancora una precisazione è necessaria, mi sembra, rispetto a tutto questo e all’uso di “caldo” che ho appena sopra declinato come alto e forte. Detto solo così rischierebbe di dipingere una cura pastorale (e in essa, i percorsi formativi specifici) a costante rischio di volontarismo, non meno inadatto e triste dell’assenza di respiro evangelico.
In simile ottica sarebbe difficile accogliere le fragilità di tutti i tipi, comprese quelle di chi inconsapevolmente intende la “vocazione” come bene rifugio residuale per proteggersi da altri problemi. Evidentemente non può essere così, né lo è stato necessariamente nella grande tradizione della direzione spirituale.
A questo proposito possono venire in aiuto almeno due attenzioni contemporanee, che oggi suggeriscono di ri/tradurre anche i benemeriti lemmi di cinquanta anni fa: l’espressione Chiesa/mondo, intanto, rischia di far pensare a due realtà che si fronteggiano soltanto, lasciando in ombra il fatto che siamo parte degli stessi processi che osserviamo. Inoltre, abbiamo maggiore consapevolezza di un tempo del fatto che le funzioni logiche e cognitive sono radicate nella dimensione emotiva: la separazione fra i due versanti, così da oscillare fra iper/emozionalità e rigidità, si collocherebbe in una sorta di alessitimia11, particolarmente problematica se di adulti formatori. Diversamente, invece, quell’empatia che si associa in questo caso (= per la Chiesa) al principio materno (dunque intesa come orientata verso la promozione e la cura e utilizzata in forma inclusiva, non escludente cioè gli uomini) potrebbe essere al cuore del sistema formativo, proprio accogliendo ognuno e accompagnandolo a riconoscere le proprie emozioni e a lavorare sulle proprie convinzioni, distinguendo nettamente fra la rigidità dei concetti e il rigore del pensiero. Seppure legata ad aspetti più basilari della educazione e della genitorialità si potrebbe, in sintesi, recuperare una osservazione di Pellai: «Far crescere un figlio significa permettergli di diventare chi è realmente, accompagnandolo lungo un sentiero che gli consenta di realizzare il proprio progetto di vita, di conoscersi e comprendersi fino in fondo così da trasformare il proprio potenziale in risorsa per la sua esistenza e per coloro che gli stanno accanto»12. Attenzione antropologica che non può mancare nella comunicazione del Vangelo e nella condivisione del sogno di una Chiesa discepola e sinodale – e solo in quanto tale madre13.

4. Sognatori come Giuseppe, come Maria, come Elisabetta
Sogno e visione, pur essendo massicciamente presenti nella Scrittura (cf At 2,17-18//Gl 3,1-5), hanno una grande forza evocativa anche oggi, in altri sistemi di linguaggio. Giocando su questa polivalenza non rinuncio alla capacità di visione di tre figure evangeliche, iniziando da Giuseppe: sognatore come il figlio di Giacobbe è portatore, nella sua giustizia, di una maschilità capace di stare di fronte nel rispetto e senza paura, di una umanità che riconosce l’opera dello Spirito (cf Mt 1,20) in chi ha davanti. Maria ed Elisabetta, non a caso due madri in attesa, mi piace invece presentarle con le parole di Luisa Muraro, che ben rendono il tratto per un verso autorevole e testimoniale (non sono queste le sue parole, ovviamente), dall’altro radicalmente affabile e benedicente e si prestano per questo a glossare l’intero percorso: si tratta di andare per il mondo come Maria che «va verso Elisabetta portando quello che il mondo non è, non sa, non può dare» o piuttosto come Elisabetta, andare incontro al mondo e vedere che è «incinto del suo meglio»14.

NOTE
1 G.UNGARETTI, La madre, contenuta nella raccolta Sentimento del tempo.
2 https://w2.vatican.va/content/francesco/it/motu_proprio/documents/papafrancesco-motu-proprio_20160604_come-una-madre-amorevole.html
3 L. LIPPERINI, Di mamma ce n’è più d’una, Feltrinelli, Milano 2013.
4 Amoris laetitia, n. 49: la citazione fra virgolette rimanda al Discorso conclusivo della XIV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi (24 ottobre 2015): cf «L’Osservatore Romano», 26-27 ottobre 2015, p. 13.
5 L. MURARO, L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, Roma 2006 [orig: 1991]. Lo studio, di cui non si può se non minimamente dar conto qui, interloquisce con la prospettiva di Lacan sull’ordine simbolico del padre. È stato tradotto in numerose lingue.
6 Questo orizzonte viene spesso indicato come “patriarcato”.
7 A. PELLAI, L’educazione emotiva. Come educare al meglio i nostri bambini grazie alle neuroscienze, Fabbri Editori, Milano 2016.
8 https://w2.vatican.va/content/francesco/it/motu_proprio/documents/papafrancesco-motu-proprio_20160604_come-una-madre-amorevole.html
9 S. CICCONE, Essere maschi. Tra potere e libertà, Rosemberg & Sellier, Torino 2009.
10 Mi riferisco evidentemente alla visita di Papa Francesco (8.7.13) a Lampedusa: http://w2.vatican.va/content/francesco/it/travels/2013/inside/documents/papa-francesco-lampedusa-20130708.html e a quella insieme ai confratelli ortodossi a Lesbo durante il 2016: http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2016/april/documents/papa-francesco_20160416_lesvos-cittadinanza.html
11 Disturbo della sfera emotiva, connotato dalla difficoltà ed incapacità di percepire, riconoscere ed esprimere gli stati emotivi, propri e degli altri. Certo qui si utilizza in senso lato, senza pretese di competenza disciplinare.
12 A. PELLAI, L’educazione emotiva, cit., p. 14.
13 Non si può dimenticare, del resto, quanto sottolinea Anselmo di Havelberg (1136 – Dialoghi III,8 PL 188, 1219A): i rappresentanti della Chiesa bizantina, lamentando modalità non sufficientemente collegiali, denunciavano di avere di fronte non una pia mater filiorum quanto piuttosto una dura et imperiosa domina servorum.
14 L. MURARO, Il Dio delle donne, Mondadori, Milano 2003, p. 154 [seconda edizione per Il Margine, Trento 2012].