N.03
Maggio/Giugno 2017

L’altro volto della speranza

(titolo originale: Toivon tuolla puolen)

Regia e sceneggiatura: Aki Kaurismäki
Fotografia: Timo Salminen
Montaggio: Samu Heikkila
Interpreti: Sherwan Haji, Sakari Kuosmanen, Ville Virtanen, Kati Outinen, Ikka Koivula, Niros Haji, Tommi Korpela, Janne Hyytiainen
Produzione: Sputnik, Oy Bufo, ZDF
Distribuzione: Cinema
Durata: 98’
Origine:Finlandia/Germania,2017

 

 

Il regista
«Col cinema voglio cambiare il mondo», ha dichiarato il cineasta scandinavo all’ultimo Festival di Berlino dove, in concorso per la prima volta, ha ottenuto l’Orso d’argento per la regia con questa sua ultima opera, che dovrebbe far parte di una “Trilogia dei migranti, o dei porti”, ancora in fieri (la prima è Miracolo a Le Havre, con la quale questa ha parecchi punti in comune).
Con il suo inconfondibile linguaggio, ricco di ironia e di umorismo stralunato, con il suo stile antinaturalista, surreale, favolistico e poetico, il regista finlandese (che gira ancora in 35 mm) ripropone la sua poetica che guarda con puntigliosa coerenza agli ultimi, agli emarginati e ai marginali in un mondo sempre più disumanizzato. Ha scritto di lui l’amico Peter von Bagh (cinefilo e critico scomparso, cui il film è dedicato): «Ha descritto una Finlandia marginale, un mondo di sfortunati e di perdenti, di cui coglie la luce magica, la sofferenza autentica, la compassione profonda e l’umorismo, con un fantastico senso dello stile, sorretto dalla coscienza ingenua del proprio valore».

La vicenda
Nel porto di Helsinki arriva casualmente Khaled, un siriano in fuga da Aleppo, dove la guerra gli ha distrutto la casa e l’intera famiglia, ad eccezione di una sorella, Miriam, che si è persa durante il viaggio. Chiede asilo alle autorità. Viene inviato in un Centro di accoglienza, dove fa amicizia con Mazdak, profugo dall’Iraq. In seguito l’asilo gli viene negato e Khaled, prima di essere rimpatriato forzatamente, riesce a fuggire e a far perdere le proprie tracce. Un giorno s’imbatte in Wilkström, un venditore ambulante di camicie che ha da poco piantato la moglie alcolizzata e che, dopo aver cessato l’attività, in seguito ad una grossa vincita al poker clandestino, ha preso in affitto un ristorante. L’iniziale scontro tra i due (volano un paio di cazzotti) si trasforma ben presto in accoglienza, aiuto, solidarietà. Khaled trova lavoro e ospitalità e, in seguito, riuscirà anche a far arrivare la sorella con la quale può finalmente ricongiungersi. Wilkström, dopo questa esperienza di apertura verso l’altro, ritorna dalla moglie (nel frattempo rinsavita), mentre Khaled, accoltellato da uno skinhead, viene consolato da una cagnetta ed è soddisfatto di aver ritrovato la sorella e un senso alla sua vita.

II racconto
La struttura è lineare e divide l’opera in due grosse parti precedute da un’introduzione e seguite da un epilogo.

Introduzione.
Vengono presentati, separatamente, i due protagonisti del film, Khaled e Wilström. Le prime immagini sono quelle del mare. La nave cargo Eira approda nel porto di Helsinki per caricare del carbone. Poi, improvvisamente, da un mucchio di polvere di carbone emerge la figura di un uomo quasi completamente sepolto. È Khaled, che viene subito presentato come un dannato della terra, una maschera di polvere, un animale ferito. Guardingamente scende dalla nave e si guarda intorno con aria smarrita. È notte. Tutto intorno si vedono grandi casermoni: in alcuni appartamenti ci sono, però, alcune luci accese (sono quelle luci che, simbolicamente, rappresentano il bene che esiste in un mondo di buio e che richiamano le luci in altri film dell’autore).
Da un’altra parte Wilström, un uomo di mezza età, si mette la cravatta, prende in mano una valigia e poi, senza dire una parola, si toglie la fede nuziale e la consegna alla moglie, una donna coi bigodini in testa, la sigaretta in bocca e la bottiglia accanto. Poi l’uomo se ne va. È il segno di una separazione, di un malessere esistenziale. Sale in macchina e parte per un viaggio di lavoro.
Ed ecco che, appena per un istante, i due protagonisti s’incrociano. Khaled sta attraversando la strada vicino alle strisce pedonali e si ferma per far passare la macchina di Wilström. È un’anticipazione del loro incontro e dell’intreccio delle loro vite, anche grazie ad una musica extradiegetica (su Wilström) che diventa poi diegetica (su Khaled).

1a parte
La struttura segue alternativamente i due protagonisti nelle loro vicissitudini, come se non avessero niente a che fare tra di loro. Per comodità espositiva, anziché passare continuamente da una storia all’altra, seguiremo i due protagonisti separatamente, senza tenere conto della struttura alternata.

Khaled. Con la sua sacca a tracolla si fa indicare un luogo dove poter fare una doccia. Va in stazione, si ripulisce, si cambia, si pettina e poi si reca in una stazione di polizia dove fa domanda di asilo in Finlandia. La risposta: «Chiedere non è un problema. Lei non è certo il primo. Benvenuto signor Khaled Alì». Viene schedato (peso, altezza, foto, impronte digitali) e invitato a firmare un foglio. Poi viene rinchiuso in una stanza dove incontra Mazdak. I due profughi fraternizzano subito.
In seguito i due vengono portati in un Centro di accoglienza, assieme a tanti altri migranti, e restano in attesa di conoscere il loro destino. Un giorno Khaled viene convocato dall’Ufficio immigrazione, dove, attraverso un lungo colloquio (molto importante dal punto di vista strutturale), veniamo a conoscere la sua storia pregressa.
Un giorno, tornando dal lavoro, Khaled trovò al posto della casa un cumulo di macerie: «Non so chi aveva lanciato il missile; truppe governative, ribelli, americani, russi, hezbollah, Isis… Mia sorella Miriam arrivò nello stesso momento; era andata al negozio a fare la fila per il pane. Cominciammo subito a scavare. I vicini ci aiutarono Al mattino avevamo trovato mio padre, mia madre, il mio fratellino, mio zio, sua moglie e i loro figli: stavano pranzando insieme». L’indomani, dopo aver seppellito i suoi cari, si fece prestare 6.000 dollari dal suo principale (padre della sua fidanzata, morta durante la guerra) e si mise in cammino. Turchia, Grecia, e poi attraverso la Macedonia, verso la Serbia, fino al confine ungherese. Qui chiusero la frontiera e Miriam rimase dall’altra parte. Nel tentativo di tornare indietro, fu arrestato e portato in prigione. La donna che l’interroga ha un’espressione bonaria e gli chiede se ha subito delle violenze.
L’uomo risponde: «Continuamente. Hanno cercato di prendere mia sorella tre volte. Ma delle brave persone ci hanno aiutato». Liberato, Khaled continuò a cercare la sorella in vari Stati, ma inutilmente. La donna che l’interroga gli domanda come abbia fatto ad attraversare le frontiere. Sconsolatamente Khaled risponde: «È stato facile. Nessuno ha voglia di vederci. Noi portiamo solo problemi».
Il colloquio viene sospeso e Khaled, mentre fa ritorno al Centro di accoglienza, viene aggredito da tre skinhead che inveiscono contro di lui. Al Centro s’approfondisce l’amicizia con Mazdak che gli presta il suo telefono per contattare un cugino, con la speranza di avere notizie di Miriam. Poi i due vanno in un bar a farsi una birra.
Qui due anziani cantano una canzone molto significativa: «Questa terra è una dura terra pietrosa. È una terra di lunghe nuvole grigie. Sebbene il Signore mostri misericordia per il contadino, questa terra non lo farà mai». Vale la pena di sottolineare qui le numerose canzoni e i brani musicali che costellano il film, caratteristica di tutte le opere dell’autore: sono stacchi musicali con brani di rock e blues finnico-sovietici anni 70, suonati da personaggi stralunati e da improbabili orchestrine (elemento stilistico inconfondibile del cinema di Kaurismäki, così come un eterno décor anni 50). Al bar anche Mazdak si lamenta per la sua situazione; è un anno che è lì e non va né avanti né indietro; cerca un lavoro (è infermiere) e vorrebbe portare lì la sua famiglia, ma i suoi titoli di studio non gli vengono riconosciuti: «Non porto gioia a nessuno. Non riesco ad aiutare me stesso, figurati gli altri». Poi dice di fingere di essere felice e soddisfatto perché «quelli malinconici sono i primi che mandano via. Tutti i malinconici vengono respinti».
In un secondo interrogatorio Khaled dice di aver «seppellito il Profeta e Dio con la sua famiglia» e, di fronte alla donna che dice: «Perciò dovrei scrivere che lei è ateo», ribatte: «Come vuole, ma non sono neanche quello». Racconta poi altre peripezie. A Danzica, davanti al porto, fu aggredito da skinhead nazisti e si rifugiò su una nave: «Ero stanco e mi sono addormentato. Quando mi sono svegliato la nave era già al largo. Mi ha scoperto un marinaio. Era un uomo buono; non l’ha detto al capitano». Il marinaio gli disse anche che la Finlandia è un buon paese, fatto di brava gente. E conclude: «Questo è un paese senza guerra. Voglio rimanere qui, imparare una lingua, trovare un lavoro, trovare mia sorella e portare qui anche lei per garantire che abbia un futuro». E alla domanda della donna: «E riguardo a lei stesso?», risponde, significativamente: «Io non sono importante».
Finalmente gli viene annunciato che è stata presa una decisione sul suo permesso di soggiorno. Khaled si reca alla stazione di polizia, pieno di speranza, ma qui viene a sapere che la sua domanda di asilo è stata respinta perché, secondo il Ministero degli affari esteri, nella città di Aleppo non esistono seri pericoli alla sua incolumità. Pertanto verrà portato fino ad Ankara in Turchia e poi scortato fino al confine siriano. Non può fare appello alla sentenza. Viene ammanettato e riportato al Centro in attesa di rimpatrio. Proprio qui, in televisione, vengono mostrate le condizioni della città di Aleppo (attraverso delle immagini di repertorio). La situazione è sempre più grave. Aleppo est, ancora nelle mani dei ribelli, viene bombardata dalle truppe siriane e russe. È stato colpito anche un ospedale pediatrico. Tutto scarseggia. Dopo un’ultima notte, durante la quale saluta il suo amico Mazdak e suona per lui, con uno strumento di un altro profugo, alcune note struggenti, Khaled, con l’aiuto di un donna del Centro, riesce a scappare davanti ai poliziotti che sono venuti per portarlo via. Si rifugia in mezzo ad una piccola folla che assiste ad un “concerto”, ma improvvisamente arrivano i soliti energumeni (sulle loro giacche c’è scritto: «Esercito di liberazione della Finlandia») che lo aggrediscono e stanno per dargli fuoco. Ma improvvisamente, dal buio, sbucano alcuni homeless che lo difendono e mettono in fuga gli assalitori.

Willström. La sua storia può essere riassunta molto più brevemente.
Dopo aver abbandonato la moglie, si mette in viaggio nella notte (la notte e le luci sono sempre molto importanti nell’economia del film). Si ferma in uno squallido ostello e il mattino dopo riparte per vendere le sue camicie. Ad una cliente manifesta la sua volontà di cambiare attività. Le offre la possibilità di acquistare le sue giacenze (circa tremila camicie) a metà prezzo, ma la donna (interpretata da Kati Outinen, l’attrice feticcio di Kaurismäki) gli dice che anche lei ha intenzione di chiudere l’attività e di trasferirsi a Città del Messico «a bere sakè e a ballare l’Ula». Poi approva la decisione di Willström di aprire un ristorante: «È un settore molto redditizio. Le persone bevono se le cose vanno male e bevono ancora di più quando vanno bene». I due si salutano.
Finalmente Willström riesce a vendere tutte le sue camicie e, con bel gruzzolo in contanti, tenta la fortuna al gioco recandosi in una bisca clandestina. Incassata una fortuna, si reca in un’agenzia immobiliare, dove prende in affitto un ristorante piuttosto scalcinato, “La pinta d’oro”, comprensivo di «due dipendenti, sicuramente capaci, che devono rimanere in quanto personale di lunga data» (in realtà, i dipendenti sono tre, perché c’è anche una donna, Mirja, che è un’apprendista).
Qui si scatenano l’ironia e l’umorismo del regista che presenta personaggi stravaganti e situazioni surreali: i dipendenti stralunati (il cuoco che dorme in piedi), il venditore furbo e disonesto che incassa i soldi in contanti e non paga gli arretrati ai dipendenti, il cliente al quale viene servito un pranzo espresso con le aringhe (della casa) ancora nella scatola, l’accordo sullo stipendio “con tariffe sindacali”, la richiesta di anticipo, ecc. Particolarmente significativa la frase del protagonista che dice di non avere nessun amico.

2a parte
I due protagonisti s’incontrano. Willström trova Khaled che dorme vicino ai suoi bidoni della spazzatura. Ne nasce uno scontro (un paio di pugni), ma subito dopo vediamo Khaled che viene rifocillato e assistito da tutto il personale e dallo stesso Willström. È importante sottolineare che l’incontro con Khaled è preceduto dalla comparsa in cucina della cagnetta Koinstinen (che sostituisce qui la più famosa Laika degli altri film del regista), un animale che Willström vorrebbe cacciare, ma che poi resta a far parte di quella sgangherata famiglia. Nonostante l’aspetto burbero, Willström si prende cura di Khaled: gli offre un lavoro, lo ospita nel suo garage, gli presta dei soldi. Quando arriva un’ispezione da parte delle autorità, Khaled e la cagnetta vengono rinchiusi in uno sgabuzzino, in una scena surreale ed esilarante. Superato l’esame, bisogna fornire Khaled di documenti.
Nessun problema, basta pagare il nipote di uno dei dipendenti ed ecco un documento che attesta che Khaled (ribattezzato Khalid Hussein) ha ottenuto asilo politico e permesso di lavoro. Tant’è vero che quando viene fermato dalla polizia per un controllo, tutto risulta essere a posto. Khaled ritrova l’amico Mazdak che però non ha ancora nessuna notizia di Miriam. Khaled dice di essersi innamorato della Finlandia, ma desidera andarsene per cercare la sorella. Nel frattempo gli affari del ristorante non vanno molto bene e quindi viene prima trasformato in un sushi bar e poi, vista l’esperienza disastrosa, in una sala da ballo.
Quando Mazdak porta la notizia del ritrovamento di Miriam (si trova in un Centro per rifugiati in Lituania), Khaled vorrebbe partire subito, ma, ancora una volta, Willström interviene in suo aiuto. Con la complicità di un camionista che porta un carico in Lituania, finalmente Miriam riesce a raggiungere il fratello. Da notare che il camionista non chiede nulla per il trasporto della ragazza. Finalmente i due fratelli possono riabbracciarsi. Hanno tante cose da raccontarsi. Miriam dice: «Mi sentivo persa, ma delle brave persone mi hanno aiutato. Una famiglia dell’Afghanistan mi ha praticamente adottata, anche se sono più vecchia di ognuno dei loro sette figli». Khaled le offre la possibilità di fabbricarsi una nuova vita, ma la ragazza ribatte: «No, Khaled, non ce n’è bisogno. Io non voglio cambiare il mio nome. Voglio mantenere la mia identità. Domani andrò ad autodenunciarmi». Khaled allora le risponde: «Come vuoi. Ti porterò da Mirja e domani ti porteremo dalla polizia». Lei conclude: «Sei il fratello migliore del mondo». Ma mentre fa ritorno al suo giaciglio, Khaled viene pugnalato dal solito skinhead che, a dimostrazione della sua ignoranza, gli dà dell’“ebreuccio”.

Epilogo
Willström si reca in un chiosco dove lavora la moglie e le chiede di poterla accompagnare a casa. La donna, che dice di non aver più bevuto un goccio da quando lui se n’è andato, ha conservato la fede nuziale ed è disposta a ritornare con lui. I due ritornano a casa e trovano il garage dove dormiva Khaled vuoto e con la porta aperta: per terra ci sono tre gocce di sangue. Khaled, seppur ferito, riesce a dare indicazioni alla sorella che si reca dalla polizia. Poi si separano. «Tu mi aspetterai?», chiede lei; «Io devo andare adesso. Ci vediamo stasera», risponde lui. L’ultima immagine è su di lui sdraiato per terra e appoggiato ad un albero. Fuma una sigaretta. Poi sembra guardare in macchina, mentre la cagnetta gli lecca il viso, aprendosi ad un leggero sorriso.

Significazione
Il film non dice che cosa capiterà a Khaled: tornerà al lavoro? Guarirà? Oppure la ferita non gli lascerà scampo? Ma quello che importa è che i due protagonisti, attraverso questa relazione basata sulla solidarietà, ricevono effetti benefici. Willström, aiutando chi è nel bisogno, matura e si evolve (lui che aveva detto di non aver nessun amico) e si apre nuovamente al rapporto con la moglie. Khaled, che aveva detto di non essere importante, riesce a “salvare” la sorella garantendole un futuro. La tematica è molto simile a quella espressa in Miracolo a Le Havre, in cui la solidarietà (tra l’uomo bianco e il bambino nero) produceva addirittura un miracolo. E anche qui la solidarietà viene dalle persone più semplici o più umili. Di fronte a Khaled ci sono coloro che lo minacciano e cercano di ucciderlo (gli skinhead); ci sono gli organi ufficiali che, apparentemente accoglienti e comprensivi, gli negano però l’asilo perché le la guerra nel suo paese non è abbastanza distruttiva; infine c’è Willström, un uomo alla deriva, che solo con un colpo di fortuna (provvidenziale?) riesce a disporre di un po’ di soldi; e ci sono tutte quelle brave persone di cui si parla continuamente nel film (i dipendenti, gli homeless, l’inserviente che fa scappare Khaled, il marinaio che lo ha nascosto… perfino la cagnetta). Ecco allora dov’è “l’altro volto della speranza” di cui parla il titolo del film. È il volto di tutti coloro che, nonostante le leggi e le politiche talvolta disumane, sono quasi naturalmente (senza bisogno di grandi proclami) dalla parte di chi si trova nel bisogno perché non hanno privilegi da difendere e si sentono parte della stessa dolente umanità.

Idea centrale
È chiaro l’intento universalizzante da parte del regista: in un mondo dove molte persone sono private dei loro diritti e sono costrette a vivere nella clandestinità e nella marginalità, solo la comprensione, la generosità e la solidarietà possono restituire loro la dignità di persone umane, permettendogli di ritrovare il senso della vita.