N.06
Novembre/Dicembre 2017

Il lievito nella pasta

L’anima vocazionale della pastorale

«Non sapete che un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta?»
(1Cor 5,6).
Tutte le componenti della Chiesa interpellate hanno chiesto al Santo Padre di convocare il prossimo Sinodo sul tema delle giovani generazioni. In questa insistenza, che ha unito sia le Conferenze Episcopali di tutto il mondo che i Padri che hanno partecipato al Sinodo sulla famiglia, certamente possiamo intravedere la fatica epocale che la Chiesa nel suo insieme sta vivendo nel compito permanente di generare alla fede i nuovi arrivati nella Chiesa e nel mondo.
Perché questa fatica? È solo una questione che dipende dal cambio culturale in atto, segnato da una cultura maggioritaria che non sembra essere più cristiana? Oppure siamo in presenza di una paralisi della Chiesa stessa, che in alcuni continenti ha smarrito la sua passione e la sua forza missionaria, che a ben vedere definisce da sempre la sua identità? Oppure, potremmo osare anche questa ipotesi, perché la pastorale della Chiesa ha smarrito la sua anima vocazionale?
Il cuore del contributo che segue ha l’intenzione di soffermarsi sul legame che intercorre tra fede e pastorale, tra sensibilità credente e antropologia vocazionale, tra azione pastorale e cultura vocazionale, tra pastorale giovanile e animazione vocazionale, cercando di delineare alcuni compiti necessari per un recupero a tutto tondo dell’anima vocazionale della pastorale.

1. La fede è il fuoco vivo che genera l’azione pastorale della Chiesa
Il tema del prossimo Sinodo va compreso con attenzione: «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale». Non è un titolo “giovanilistico”, né “ecclesiastico”, ma per molti aspetti assai profetico. Oggettivamente, se osserviamo, al centro vi è posta la fede come modo specifico, da una parte, di cogliere la realtà giovanile e, dall’altra, di assumere lo stile esatto per poter accompagnare i giovani nel loro discernimento vocazionale.
A partire dalla fede ci è chiesto di avere uno sguardo pastoralmente intenzionato, perché è importante ribadire che ogni azione che voglia identificarsi come “pastorale” trova la sua genesi e il suo fulcro nella fede. Solo chi ha fede fa pastorale e la pastorale ha senz’altro il compito di suscitare la fede stessa, che è definibile a partire da una dimensione vivente: chi vive di fede cerca di vivere la sua esistenza umana nel modo in cui Gesù ha vissuto la sua esistenza tra noi, riconoscendolo come il modo giusto e felice di vivere la propria esistenza umana. D’altra parte la dinamica pastorale assume immediatamente ed intrinsecamente la condizione culturale e la situazione esistenziale dei suoi destinatari, perché parte esattamente dalle persone concretamente esistenti nella storia e dal punto preciso in cui si trova la loro libertà.
È quindi normale pensare, prima di tutto, che lo sguardo ecclesiale sul mondo giovanile debba essere uno sguardo di fede, che si specifica quindi come sguardo pastorale, cioè finalizzato ad accompagnare ciascuno di loro verso la vita piena e abbondante che solo il Vangelo di Gesù è in grado di offrire. Gesù è il maestro di questo sguardo: sguardo di amore, di condivisione, di empatia, di compassione, di speranza e di dedizione. È lo sguardo del vero “servo inutile”, cioè di colui che non va in cerca del proprio utile, perché da sempre desidera per tutti e per ciascuno il massimo della benedizione e della presenza di Dio.
In altra direzione, lo stesso discernimento vocazionale è opera della fede. Sia il discernimento, in quanto lavoro prettamente spirituale, cioè guidato in tutto e per tutto dallo Spirito del Signore, che la questione della vocazione, che è chiaramente da intendersi come voce di Dio che chiama. Il Documento preparatorio è fin troppo chiaro, mettendo in campo la fede in vista del discernimento vocazionale e nel primo punto della seconda parte esordisce con un’affermazione molto forte:
«La fede, in quanto partecipazione al modo di vedere di Gesù (cf Lumen fidei, 18), è la fonte del discernimento vocazionale, perché ne offre i contenuti fondamentali, le articolazioni specifiche, lo stile singolare e la pedagogia propria. Accogliere con gioia e disponibilità questo dono della grazia richiede di renderlo fecondo attraverso scelte di vita concrete e coerenti».
La fede è quindi la fonte del discernimento vocazionale: offre contenuti, articolazioni, stile e pedagogia. Ciò che segue nel Documento non è altro che uno sviluppo coerente di questa quadruplice affermazione: che cos’è l’accompagnamento se non la “pedagogia” adeguata alla vita di fede? Che cos’è la vocazione se non lo “stile” proprio del cristiano di vivere la propria esistenza di colui che è chiamato? Che cos’è il triplice passaggio del discernimento (riconoscere, interpretare, scegliere) se non l’“articolazione” propria del cammino di scoperta liberante e di accoglienza gioiosa della propria vocazione? Che cos’è la missione se non il “contenuto” fondamentale di ogni vocazione?

2. La sensibilità credente conferma la bontà di un’antropologia vocazionale
Dopo aver chiarito l’importanza del legame che intercorre tra fede e pastorale, è ora opportuno approfondire la questione affrontando il tema del legame tra sensibilità credente e antropologia vocazionale.
La fede genera una sensibilità singolare, cioè un modo di vedere il mondo, di comprenderlo e di interpretarlo. E anche un modo specifico di abitare e agire nel mondo stesso. Genera un modo specifico di intendere il tempo, lo spazio, la socialità e la storia. Genera un modo unico e sorprendente di comprendere il legame tra la libertà, la verità e la carità.
Soprattutto, la sensibilità credente genera un modo di comprendere l’uomo nella sua struttura e nel suo destino. Partendo da un punto di vista biblico, ma anche facendo leva sui percorsi della tradizione della Chiesa, possiamo affermare con sicurezza che l’uomo è un essere amato, quindi non può che essere continuamente chiamato. Il nesso tra amare e chiamare è molto forte e va riscoperto in tutta la sua pregnanza, perché ogni volta che Dio ama, egli decisamente chiama. La prospettiva della creazione è sempre legata alla logica dell’alleanza d’amore.
Il Documento preparatorio, con grande saggezza, all’inizio della seconda parte radica la fiducia della promessa della vita buona nell’esperienza di una molteplicità di nascite, che sono sempre da intendersi come chiamate una dentro l’altra:
«La sapienza della Chiesa orientale ci aiuta a scoprire come questa fiducia sia radicata nell’esperienza di “tre nascite”: la nascita naturale come donna o come uomo in un mondo capace di accogliere e sostenere la vita; la nascita del battesimo “quando qualcuno diventa figlio di Dio per grazia”; e poi una terza nascita, quando avviene il passaggio “dal modo di vita corporale a quello spirituale”, che apre all’esercizio maturo della libertà (cf Discorsi di Filosseno di Mabbug, vescovo siriano del V secolo, n. 9)».

Dalla vita di fede, che genera sensibilità credente, prende quindi forma una visione vocazionale della vita dell’uomo, della sua chiamata alla fede e del suo invito al discepolato.
L’esperienza qui evocata, quella della nascita, evoca un dato tanto elementare quanto profondo: nessuno si dà la vita da sé, ma sempre egli è generato da altri. Una volontà altra e un desiderio di altri ci hanno dato vita mettendoci al mondo. Il nostro esserci precede la nostra iniziativa e quindi, anche solo dal punto di vista antropologico, dobbiamo ammettere che la nostra vita si gioca sul registro della fragilità, del dono, dell’ospitalità. E soprattutto sul registro fondamentale della filialità.
E il Figlio, generato dal Padre che è nei cieli e insieme figlio della Vergine, non fa altro che confermare questa prospettiva chiaramente vocazionale: è pienamente consapevole che la sua missione sta dall’inizio alla fine sotto il segno dell’obbedienza a un Padre che lo ha inviato per un compito preciso; si ritira in preghiera, grato di essere continuamente rigenerato dalla speciale relazione che intrattiene con il suo Abbà, sta sottomesso ai suoi genitori dopo il ritrovamento al tempio, pur affermando che la relazione che egli intrattiene con Dio è qualitativamente diversa da tutte le altre; cerca in ogni modo di attestare il vero culto a Dio, che nasce dal riconoscimento semplice e profondo di essere suoi figli, continuamente amati, accompagnati e salvaguardati. Il Figlio, il chiamato per eccellenza, cerca in ogni modo di riaffermare la sua identità come completamente ricevuta e mai egli afferma di essersi fatto da sé.
È quindi decisivo per noi riaffermare il nesso tra sensibilità credente e antropologia vocazionale: proprio la vita di fede, che affonda le sue radici nell’esperienza del figlio Gesù, ci fa scoprire la nostra provenienza dall’amore di un Dio che crea per l’alleanza, che chiama per la comunione, che non si stanca di correggere amorevolmente la visione distorta di creature che cercano irragionevolmente emancipazione e autonomia dalla fonte della loro sussistenza.

3. Un agire pastorale corretto è destinato a creare cultura vocazionale
Se prendiamo sul serio quello che abbiamo detto nei primi due paragrafi la conclusione pastorale che ne deriva è logica e lampante: il primo modo evangelico di fare pastorale è quello di creare una “cultura vocazionale” e di lavorare perché tutti respirino quest’aria vocazionale nella Chiesa e nel mondo.
Una cultura capace di accogliere la vita come un dono da ricevere con gioia e di cui essere grati, riconoscendo che nessuno ha il diritto di impossessarsi del mistero dell’esistenza, di definirlo e di manipolarlo. Una cultura che si oppone all’arroganza di chi vorrebbe farsi da sé e non dipendere da nessuno. Una cultura che non pensa alla terra come ad una fonte di guadagno, ma piuttosto ad un dono da coltivare con cura e da rispettare come buoni amministratori.
Una cultura ecclesiale che non cerca soluzioni attraverso i mezzi mondani della forza e della potenza, ma che si fa attenta ai segni dello Spirito che dice continuamente come essere fedele al Signore. Una cultura che rifiuta una progettualità autoreferenziale e narcisistica, ma che sposa la dinamica della missione generosa per tutti. Una cultura convinta che la questione vocazionale sia di interesse universale, che interessi cioè tutti gli uomini e tutti i battezzati, nessuno escluso.
Una cultura che, per entrare nel nostro campo specifico, non si accontenta di fare un lavoro vocazionale di “reclutamento”, pur non banalizzando la specificità e la necessità di promuovere le vocazioni “di speciale consacrazione” per il bene di tutta la Chiesa e del mondo intero. Dobbiamo dirlo con franchezza: oggi il tema vocazionale è assai pregiudicato, sia in ambito intra-ecclesiale che in ambienti laici rispetto al fatto che con esso s’intende pacificamente che la questione vocazionale sia elitaria, esclusiva ed escludente. Cioè che appartenga ad un gruppo di eletti che sono stati particolarmente prediletti da Dio e dagli uomini.
La cosiddetta “pastorale del bonsai” è largamente praticata e a volte teorizzata!
Per uscire da questa vera e propria impasse – venutasi a creare nel tempo della modernità per molti motivi che non abbiamo il tempo in questa sede di analizzare – ci vorrà tanto tempo, molto lavoro e infinita pazienza. Ci vorrà anche disponibilità alla conversione delle nostre sensibilità e del nostro modo di impostare la pastorale ordinaria. Ci vorrà un mutamento epocale in grado di affermare sul campo il valore del battesimo come piattaforma missionaria comune la dignità di ogni vocazione nella Chiesa. Così anche il coraggio di riconoscere e gioire per l’azione dello Spirito del Signore al di fuori dei confini ecclesiastici.
D’altra parte, per essere ancora chiari, il modo in cui in alcuni ambienti si sta interpretando l’indizione del prossimo Sinodo è proprio a proposito della crisi vocazionale in atto, che vede una Chiesa – specialmente quella europea ed occidentale, ma non solo – in affanno per la mancanza di “personale”: la situazione di alcuni ambienti effettivamente è drammatica e lo lascia a volte intendere.
Ma non è certo questa la prospettiva di Papa Francesco, che invece ha mostrato una spiccata sensibilità pastorale, messa a tema fin da subito attraverso il grande appello al discernimento: possiamo infatti intendere tutto il suo magistero a partire dal filo rosso del discernimento. Evangelii gaudium, Laudato sii, Amoris laetitia appaiono tre versanti di un’unica attenzione all’unico discernimento che prende diverse sfaccettature (ecclesiale, ecologico e familiare). E chiaramente, partendo dall’età giovanile, come età del coraggio di prendere in mano la propria esistenza attraverso la scelta dello stato di vita nel mondo e del pensare al proprio posto nella Chiesa, qual è la prospettiva specifica abbracciata se non quella del discernimento vocazionale? È evidente che la giovinezza vive di quel richiamo vocazionale naturale e decisivo ed è altrettanto evidente che tale richiamo diventa realtà solo attraverso un processo di discernimento, che nasce dalla fede ed ha necessità di un adeguato accompagnamento di ambiente, di gruppo e personale.

4. La pastorale giovanile ha necessariamente un’anima vocazionale
Veniamo ora ad un ulteriore passaggio, quello che concretizza il legame genetico che sussiste tra la pastorale giovanile e quella vocazionale. Esso è immediatamente rintracciabile nel Documento preparatorio, quando all’inizio della terza parte afferma che «riconosciamo una inclusione reciproca tra pastorale giovanile e pastorale vocazionale, pur nella consapevolezza delle differenze». Bisogna però definire con attenzione questa “inclusione reciproca”, che non è semplicemente da intendersi in ottica di spartizione dei compiti, ma di una vera e propria appartenenza reciproca.
Non per nulla, analizzando il Documento, per ben cinque volte appare l’espressione relativamente nuova di “pastorale giovanile vocazionale”: attraverso questa nuova grammatica di certo la Segreteria del Sinodo intende già prendere posizione sulla necessità di integrare e rendere sinergica il nostro modo di pensare ed attuare la nostra pastorale troppe volte frammentato, scontroso e quindi inefficace.
Per farsi un’idea chiara circa l’idea per cui la pastorale giovanile vive di un’anima vocazionale mi pare opportuno rileggere una delle prime indicazioni date da Papa Francesco a proposito delle intenzioni sinodali. Durante la Veglia in preparazione alla XXXII Giornata Mondiale della Gioventù dello scorso 8 aprile il Santo Padre così si è rivolto ai giovani presenti, ma idealmente a tutti i giovani del mondo, nessuno escluso:
«Tante volte, nella vita, perdiamo tempo a domandarci: “Ma chi sono io?”. Ma tu puoi domandarti chi sei tu e fare tutta una vita cercando chi sei tu. Ma domandati: “Per chi sono io?”. Come la Madonna, che è stata capace di domandarsi: “Per chi, per quale persona sono io, in questo momento? Per la mia cugina”, ed è andata. Per chi sono io, non chi sono io: questo viene dopo, sì, è una domanda che si deve fare, ma prima di tutto perché fare un lavoro, un lavoro di tutta una vita, un lavoro che ti faccia pensare, che ti faccia sentire, che ti faccia operare. I tre linguaggi: il linguaggio della mente, il linguaggio del cuore e il linguaggio delle mani. E andare sempre avanti».

Già in Evangelii gaudium, al n. 273, vi era un passaggio di grande lucidità sull’argomento quando, parlando dell’identità del cristiano, si dice che «io sono una missione su questa terra, e per questo mi trovo in questo mondo». Un’affermazione, anche qui, molto forte e precisa: la missione non è un “fare”, ma un “essere”, cioè offre consistenza personale nella forma della generosità sistemica verso il prossimo.
Per confermare la bontà della nostra interpretazione sulle autentiche intenzioni del prossimo Sinodo, possiamo ascoltare con frutto anche la parola autorevole del Segretario Generale del Sinodo, il Card. Lorenzo Baldisseri. Nel contesto del Simposio sull’accompagnamento spirituale promosso dalla Conferenza Episcopale Europea svoltosi a Barcellona dal 28 al 31 marzo 2017 (cf il sito http://symposium2017.ccee.eu/it), presentando il prossimo Sinodo, così affermava: «La Chiesa, in sostanza, desidera abilitare ogni giovane a prendere coscienza che “io sono una missione su questa terra, e per questo mi trovo in questo mondo” (Evangelii gaudium, n. 273): da qui nasce la necessità di far luce sulla propria vocazione specifica, per mezzo del discernimento e attraverso l’accompagnamento, che hanno il compito di creare le giuste condizioni perché ogni giovane possa rispondere con gioia e generosità all’appello divino. […] La prospettiva generale del Sinodo è quindi chiaramente “vocazionale”: uscendo dal circolo dell’autoreferenzialità narcisistica e mortifera del “chi sono io?” – che è certamente un tratto dominante della cultura globalizzata tardo moderna –, chiede alla Chiesa stessa e ad ogni giovane di entrare nel ritmo della più pertinente e decisiva domanda “per chi sono io?”. Essa apre il campo verso “l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità” della vita nell’amore vero e nella gioia piena, che trova nella dedizione del Signore Gesù la sua radice, il suo fondamento e il suo compimento (cf Ef 3,18)».

5. L’animazione vocazionale riguarda tutta la pastorale
Ma se ci pensiamo bene, la “mossa sinodale” – provocare i giovani a partire dalla domanda graffiante “per chi sono io?” –, diventa anche “mossa ecclesiale” che ci tocca da vicino, perché ogni azione pastorale della comunità e dei singoli non è mai autoreferenziale, cioè destinata all’autoedificazione, ma deve sempre partire da un “per chi?”, che tante volte ci sfugge. Il gesto centrale della vita di fede, che è senza dubbio la celebrazione dell’Eucaristia, è l’impresa istitutiva della Chiesa nella forma di una completa e totale perdita di sé a favore dell’altro: è un consegnarsi svuotandosi delle proprie prerogative divine; è un “per voi” e un “per tutti”, nessuno escluso. È la vocazione di Gesù, che è venuto a dare la vita perché tutti abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza (cf Gv 10,10). E questa disponibilità è il motivo della stima e dell’amore che egli riceve dal Padre: «Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita […] Nessuno me la toglie: io la do da me stesso» (Gv 10,17.18).
Anche la Chiesa, similmente a Gesù, è se stessa solo nel doppio movimento permanente del servizio a Dio e verso gli uomini, che si realizza nel dinamismo di diastole e di sistole: il contatto centripeto con Dio è fonte permanente di quello centrifugo di servizio agli uomini. Recuperare un’intenzionalità umile e disinteressata diventa indispensabile per una Chiesa che è chiamata ad essere amministratrice dei beni di Dio e collaboratrice della vita degli uomini, come attesta il Documento preparatorio al termine della seconda parte:
«Nell’impegno di accompagnamento delle giovani generazioni la Chiesa accoglie la sua chiamata a collaborare alla gioia dei giovani piuttosto che tentare di impadronirsi della loro fede (cf 2Cor 1,24).
Tale servizio si radica in ultima istanza nella preghiera e nella richiesta del dono dello Spirito che guida e illumina tutti e ciascuno».
In conclusione, possiamo affermare che la relazione di inclusione reciproca tra pastorale vocazionale e pastorale (giovanile) è quella che sussiste tra il lievito e la pasta, esattamente secondo la logica della brevissima parabola di Gesù: «E disse ancora: “A che cosa posso paragonare il regno di Dio? È simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata”» (Lc 13,20-21 e Mt 13,33). L’assonanza tra l’animazione e il lievito è chiara, così come è interessante quella tra la pasta e la pastorale. Sappiamo che il lievito è in grado di far fermentare tutta la pasta (cf 1Cor 5,6 e Gal 5,9)!
Per questo motivo preferisco parlare di “animazione vocazionale” piuttosto che di “pastorale vocazionale”: non certo per ridurla, ma per dare ad essa tutto il peso specifico che deve avere, perché tutta la pastorale – e non solo quella “giovanile” – dovrebbe essere fermentata da un qualificato lievito vocazionale, che gli offre un’animazione decisiva e determinante.