N.02
Marzo/Aprile 2018

Ascoltare l’universo: il grande spettacolo del cielo

Il lavoro dell’astrofisico consiste nell’ascoltare l’universo. La voce del cosmo non ci raggiunge attraverso il suono, ma attraverso la luce, che dopo lunghissimi percorsi attraverso gli spazi siderali arriva ai nostri occhi e ai nostri strumenti. I segnali che riceviamo dal cielo sono tanto ricchi di informazione quanto deboli, quasi impercettibili. Per questo, da quando Galileo nel 1609 puntò per la prima volta un cannocchiale al cielo, l’uomo ha saputo via via estendere la sua capacità di raccogliere la luce celeste con strumenti sempre più sofisticati e potenti. Ma l’astronomia precede di gran lunga la scienza moderna, e le sue origini risalgono alla notte dei tempi. E per tutte le generazioni che hanno alzato gli occhi al cielo, dalla preistoria ad oggi, l’unico atteggiamento adeguato per cogliere il significato di quelle luci celesti è lo stesso: la disponibilità all’ascolto di una voce che non governiamo noi, la voce dell’universo. Essa ci sorprende e ci spinge passo dopo passo oltre la nostra stessa immaginazione. Come ha osservato acutamente Teilhard de Chardin, «La storia della scienza naturale può essere riassunta come l’elaborazione di occhi sempre più perfetti entro un cosmo nel quale c’è sempre qualcosa di più da vedere».

Lo spettacolo del cielo accomuna gli esseri umani di qualunque parte del mondo, di qualsiasi cultura e tradizione, di ogni generazione. Di quali altre realtà potremmo dire la stessa cosa? L’esperienza della volta stellata risveglia in noi qualcosa di ancestrale, provoca un’impressione profonda che unisce fascino e vertigine, curiosità scientifica e ispirazione artistica, intuizione geometrica e senso religioso. Diventa quasi impossibile, di fronte alla sproporzione che immediatamente ogni uomo avverte considerando la volta celeste, non sentir affiorare gli interrogativi ultimi che riguardano l’origine e il fine di tutto ciò che esiste.

A dire il vero, per noi figli della modernità contemplare il cielo in una notte veramente buia e limpida è diventata un’esperienza rara, se non impossibile. L’inquinamento luminoso e atmosferico, e ancor più il nostro stile di vita, ci hanno tolto l’abitudine di guardare le stelle, privandoci della percezione semplice e potente dell’immensità del mondo. Dopo migliaia di generazioni, a quanto pare, siamo proprio noi i primi a mancare l’appuntamento quotidiano con il cielo che, da sempre, sovrasta e avvolge l’esistenza umana.

Oltretutto noi moderni, vittime di una sottile forma di presunzione, tendiamo a misurare le idee del passato con il metro delle nostre attuali cognizioni, con il rischio di produrre una narrativa superficiale e costellata di luoghi comuni. Ma coloro che ci hanno preceduto nell’avventura di riconoscere la natura del cosmo hanno dovuto superare barriere immaginative enormi, per noi difficili persino da comprendere, più alte di quelle a cui normalmente noi siamo esposti. Non apprezzare la difficoltà delle antiche generazioni a concepire come agli antipodi gli uomini potessero vivere “a testa in giù”, o la loro riluttanza a credere che la Terra veramente ruota su se stessa e corre nello spazio, è come deridere un bimbo perché barcolla mentre tenta di compiere i suoi primi passi. E’ interessante allora provare a immedesimarci con gli occhi e con le menti di chi ci ha preceduto per far nostra almeno un’ombra delle domande che li agitavano quando scrutavano il cielo. E allora ci renderemo conto che non c’è nulla di banale o di scontato in nessuno dei passaggi che essi hanno compiuto verso una consapevolezza sempre meno inadeguata del mondo fisico, a cominciare da quelli più elementari.

1.L’INFANZIA

Quando l’uomo ha iniziato ad ascoltare la voce delle stelle? E’ impossibile rispondere direttamente a questa domanda: osservare il cielo non lascia alcuna traccia o reperto fossile. Ma, come spesso succede, possiamo arrivare a qualche risposta seguendo una via indiretta.

Chi ha avuto la fortuna di entrare nelle grotte di Lascaux, nel Sud-Ovest della Francia, difficilmente avrà potuto trattenere un istante di commozione. La caverna è interamente decorata con dipinti che raffigurano scene di caccia e animali preistorici, con un’intensità paragonabile a quella delle grandi opere d’arte moderna. Un artista del calibro di Pablo Picasso, vedendo quei dipinti, disse che quegli artisti preistorici avevano lasciato ben poco da compiere ai loro posteri. Gli uomini di Cro-Magnon, autori di quelle opere d’arte, vissero tra 35 e 15 mila anni fa, in piena glaciazione, in condizioni durissime, per noi difficili persino da immaginare. Eppure il messaggio custodito da quelle immagini ci raggiunge dopo decine di millenni e risuona immediatamente con la nostra sensibilità e il nostro senso estetico. Non occorre essere degli antropologi per capire che gli artisti di Lascaux erano uomini esattamente come noi.

Ebbene quegli uomini, capaci di ammirare la natura, di coglierne la forza e il pericolo, la bellezza e il mistero, e di rappresentare tutto ciò con straordinaria forza evocativa, erano sottoposti quotidianamente a uno spettacolo straordinario, una vista che per noi è diventata assai meno famigliare: il cielo nero tempestato di stelle. Il grande spettacolo del cielo, con i punti luminosi delle stelle e la scia argentea della Via Lattea, si ripresentava ai loro occhi ogni notte, ininterrottamente, milioni di volte, senza che null’altro potesse distrarre il loro sguardo. È molto difficile credere che uomini dotati della sensibilità espressa dai dipinti di Lascaux non fossero colpiti dalla vista del cielo stellato: dalla luce rossa di Aldebaran, dal gioco di luce cristallina delle Pleiadi o dalla scia della Via Lattea. Ed ecco un indizio. Sul soffitto della Sala dei Tori, una delle grotte del complesso di Lascaux, campeggia la figura di un grande toro preistorico, magistralmente disegnato, accanto al quale si trova un gruppo di sei punti disposti sopra il dorso dell’animale. Alcuni studiosi hanno interpretato questo disegno come una rappresentazione delle Pleiadi, un ammasso stellare ben visibile ad occhio nudo. Analogamente, fra i dipinti rupestri di Altamira, in Spagna, tra dipinti paragonabili per forza estetica a quelli di Lascaux si trova una serie di punti disposti a semicerchio che ricordano molto da vicino la costellazione oggi nota come Corona Boreale.

Ma forse lo spettacolo più impressionante che andava in scena in quelle notti preistoriche era la Luna. Quanto dev’essere stata coinvolgente la presenza di quel bianchissimo e misterioso faro nelle lunghe veglie colme di pericoli? La forma perfettamente circolare del disco della Luna piena non ha pari in natura: nessuna pietra, fiore o frutto è tanto precisa­mente rotondo; una perfezione che periodicamente torna a rompersi e poi a ricomporsi. La Luna è stata la prima maestra di geometria dell’umanità. Quando i Cro-Magnon si resero conto della regolarità del ciclo lunare, po­terono trarne beneficio. Impararono a contare i giorni tra una luna piena e la successiva, e trovarono che quel ciclo si ripeteva ogni 29 giorni – una fedeltà sovrumana, ribadita negli anni, nei secoli, nei millenni. Ebbene, sono stati ritrovati reperti che mostrano come, a partire da 33mila anni fa, l’uomo faceva uso di rudimentali calendari lunari per scandire il tempo.

Ciò che maggiormente impressionava quei primi osservatori del cielo, via via che ne prendevano coscienza, era la regolarità del movimento delle luci celesti. Questa contrastava con gli spostamenti provvisori e irregolari di tutte le cose terrestri. Una pietra che rotola giù da un pendio, la corsa di un’antilope, lo scorrere di un fiume non avevano nulla a che fare con il perentorio alternarsi dei movimenti celesti. La danza perenne e silenziosa degli astri, la loro luce immutabile, non potevano che avere un’origine divina.  Anche perché quella regolarità non era solamente ammirevole, era per loro una questione di vita o di morte. Il Sole, presenza celeste assolutamente senza paragoni, era la fonte del calore e della luce indispensabili per sopravvivere. Il suo quotidiano riapparire, il ritorno ogni anno della primavera che prometteva nuova vita. Erano presenze sentite in modo viscerale. Fin dall’alba dei tempi l’uomo risuona con i ritmi ancestrali del cielo.

L’alternarsi della luce e del buio, del giorno e della notte, deve aver facilitato nell’uomo la coscienza che anche la presenza delle cose più essenziali non è scontata. Un po’ come un bimbo che diviene serio e pensieroso quando vede scomparire il volto della madre, che per gioco si nasconde, così i primi uomini vivevano con una punta di angoscia la scomparsa del Sole dietro l’orlo dell’orizzonte, ogni sera, per lasciar posto all’oscurità. E proprio come il bimbo torna a sorridere appena rivede il volto della madre, così essi festeggiavano all’alba con gesti di riconoscenza per il suo ritorno.

Fin dalla sua prima comparsa sulla faccia della Terra, l’uomo ha contemplato la vastità del misterioso mondo celeste, che gli appariva come totalmente “altro” rispetto alla sua esperienza terrestre. E quando le civiltà si fecero via via più complesse, quasi invariabilmente e in modi diversi, le loro tradizioni religiose identificarono negli astri le loro principali divinità. Il cielo fu riconosciuto come il luogo privilegiato del divino. E sopra a tutti i corpi celesti, era il Sole a dominare la loro devozione.

2. DA PITAGORA A HUBBLE

Lo stupore primordiale dell’uomo per il cielo diviene la fonte del suo desiderio di conoscere la natura di quelle luci misteriose, e di comprenderne i movimenti. I babilonesi e gli egizi divennero abilissimi osservatori, e impararono a misurare con precisione le posizioni di stelle e pianeti  sulla volta celeste. Ma furono gli antichi greci a sentire, per la prima volta, un’esigenza nuova. Non si accontentarono di tracciare i movimenti degli astri, vollero dar ragione di quelle traiettorie in base a una sintesi geometrica. A partire da Pitagora, e poi con Platone e Aristotele, ritennero che l’unico movimento degno della perfezione immutabile dei corpi celesti – considerati realtà divine e incorruttibili – fosse il moto circolare uniforme: un movimento che si ripete all’infinito senza mai mutare il suo rapporto con lo spazio in cui avviene. Un moto eterno, senza inizio né fine, senza struttura.

Il moto delle stelle – concepite come luci incastonate in una enorme sfera cristallina, che ruota attorno alla Terra centrale, sferica e immobile – si lasciava facilmente descrivere da un singolo moto circolare uniforme. Ma così non era per una manciata di astri  anomali, i pianeti, i quali seguivano movimenti più complessi, difficilmente prevedibili. Allora, lungo una tradizione oltre sei secoli, con successivi perfezionamenti, generazioni di abilissimi matematici greci tentarono di spiegare quei movimenti come combinazioni di moti circolari uniformi, costruendo sistemi sempre più complessi di sfere rotanti l’una sull’altra. L’apice di questo impressionante sforzo matematico fu raggiunto intorno al 150 d.C., quando Tolomeo costruì un sistema di ingranaggi tanto preciso da spiegare tutti i movimenti osservabili (a occhio nudo, ovviamente) in cielo. Il problema dell’universo era risolto.

Fu tanto accurato quel modello che, nei successivi 15 secoli, non si trovarono pressanti ragioni per modificarlo sostanzialmente. Quando intorno al XII secolo i grandi testi greci furono riscoperti dai maestri medievali, la struttura geometrica del cosmo aristotelico-tolemaico fu entusiasticamente adottata dalla cultura cristiana del tempo. Ma fu integrata in una visione cosmica profondamente nuova, meravigliosamente simmetrica, nella quale l’universo era concepito come creazione del Dio giudaico-cristiano, e mantenuto in movimento dalle intelligenze angeliche.

I grappoli di sfere del modello tolemaico erano alquanto arzigogolati, ineleganti, poco credibili da un punto di vista fisico. Quando a metà del ‘500 Copernico metterà il Sole al centro, non sarà  tuttavia in grado di semplificare il sistema: anche lui, infatti, quanto al movimento degli astri era aristotelico come tutti i suoi contemporanei, sicché basò il suo modello eliocentrico su una pura combinazione di moti circolari uniformi. Solo quel genio di Keplero andrà  oltre, scoprendo che le orbite non sono circolari, ma i pianeti si muovono intorno al Sole su orbite ellittiche, con velocità che variano lungo la traiettoria seguendo semplici ed eleganti leggi matematiche.

Galileo, contemporaneo di Keplero, guardò con sufficienza le sue scoperte. Non ne comprese l’importanza, e rimase agganciato alla tradizione che prevedeva per gli astri solo il moto circolare uniforme. Ma a sua volta Galileo dette un contributo gigantesco alla nuova visione emergente dell’universo, grazie alle le sue rivoluzionarie osservazioni al telescopio. Egli mostrò fra l’altro che la superficie della Luna è, come quella della Terra, cosparsa di montagne e valli, e quindi non è fatta (come volevano gli aristotelici) di una “quintessenza”, o sostanza incorruttibile. E scoprì che Giove ha ben quattro lune che gli ruotano attorno. Il cielo dei pianeti era diventato un luogo molto più vicino alla nostra Terra.

Fino a questo punto l’ordine cosmico era percepito a sprazzi, emergeva solo in alcuni fenomeni, astronomici o terrestri. Sarà il giovane Isaac Newton, genio allo stato puro, a indicare un nuovo punto di non ritorno: tutti i corpi celesti – i pianeti, le comete e persino le lontanissime stelle – così come ogni sasso sulla Terra e ogni particella nell’universo infinito, obbediscono alla stessa legge, scritta in linguaggio matematico. Egli concepì la prima legge fisica nel senso moderno, la legge di gravitazione universale.

Lo scenario successivo fu un ulteriore e insospettato allargamento di orizzonte. Tra la fine del ‘700 e l’inizio del ‘900, da William Herschel a Edwin Hubble, una escalation di eroiche osservazioni e di colpi di scena squarcerà il velo, pur vasto, della Via Lattea per proiettarci nell’immane estensione del regno delle galassie. Furono costruiti telescopi sempre più potenti, e i confini dell’universo conosciuto si allargarono rapidamente. Herschel all’inizio del XIX secolo fu in grado di costruire la prima mappa del nostro “sistema stellare”, la Via Lattea. E grazie ai suoi potenti telescopi si accorse che in cielo non ci sono solo stelle e pianeti, ma anche una moltitudine di strane macchioline luminose, che chiamò nebulose, la cui natura rimase a lungo misteriosa. Finché all’inizio del Novecento, Edwin Hubble, con un grande telescopio di nuova generazione installato a Monte Wilson, in California, e grazie all’introduzione della fotografia astronomica, fu in grado di misurare la distanza di alcune di queste nebulose. Quelle misure avrebbero nuovamente sconvolto la nostra visione dell’universo. Esse erano a distanze di 1-2 milioni di anni luce, talmente lontane che non potevano essere all’interno della Via Lattea: non potevano che essere enormi isole di stelle, altre galassie esterne alla nostra.

3. NUOVE IMMAGINI COSMICHE

Oggi sappiamo che l’universo contiene miliardi di galassie, e ogni galassia contiene centinaia di miliardi di stelle. Abbiamo anche scoperto che lo spazio cosmico è in espansione: la distanza tra le galassie cresce nel tempo, si dilata uniformemente in tutte le direzioni.  Questa straordinaria capacità dello spazio di evolvere, dilatandosi, era scritta nelle equazioni della teoria della relatività generale, introdotta da Albert Einstein nel 1916. Ma, in verità, non fu Einstein a comprendere fino in fondo la portata cosmologica della sua sessa teoria, bensì altre figure, assai meno vistose nell’immaginario collettivo, come Georges Lemaître e Alexandre Friedman.

Misurando la rapidità dell’espansione cosmica, siamo in grado di stimare l’epoca in cui essa ebbe inizio: circa 14 miliardi di anni fa. In quei primi momenti, l’universo era semplicissimo. Possiamo pensarlo come un mare incandescente e denso, ad altissima temperatura, privo di strutture, senza forme definite. Non vi erano galassie, stelle, nemmeno atomi. Era un magma indistinto di particelle cariche separate (soprattutto protoni e elettroni) e di particelle di luce (fotoni). Ma quella materia informe era attraversata da lievissime disuniformità di densità (una parte su 100 mila); come la superficie di un mare calmissimo, percorso da increspature appena accennate. Quelle increspature sono qualcosa di provvidenziale: essi rappresentano, per così dire, i “semi gravitazionali” dell’universo, regioni a partire dalle quali la gravità, nei miliardi di anni, avrebbe lentamente costruito le strutture cosmiche che vediamo l’universo attuale: galassie, stelle, pianeti.

Da allora ad oggi l’universo è, letteralmente, fiorito. Esso ha oggi un tale livello di complessità, ricchezza, varietà, da risultare sorprendente, del tutto inimmaginabili in quella fase iniziale quasi indistinta. Così nel tempo il cosmo ha raggiunto un livello di maturazione capace di accogliere, almeno in un suo punto (il nostro piccolo pianeta), qualcosa di straordinario: la vita. E la vita è divenuta tanto ricca e fine da permettere l’emergere di un ulteriore livello della realtà, quello della coscienza. Ciascuno di noi, ogni “io” umano, è un punto della natura nel quale la natura diventa cosciente di se stessa. Ogni “io” è un punto di autocoscienza del cosmo.

Oggi siamo in grado di osservare direttamente, e con grande accuratezza, quei semi primordiali. Ciò è possibile grazie alle misure del fondo cosmico di microonde, la prima luce dell’universo. Questa luce primordiale fu scoperta nel 1965, in modo avventuroso, da due fisici americani, Arno Penzias e Robert Wilson. Si tratta di luce che ha viaggiato quasi indisturbata per 14 miliardi di anni, e che quindi ci porta un’immagine “in diretta” di come era l’universo 14 miliardi di anni fa: un’immagine dell’universo appena nato. Quel fossile luminoso è una luce debolissima, a lunghezze d’onda di qualche millimetro, ed è quindi del tutto invisibile ai nostri occhi. Essa non ci proviene da un punto particolare dello spazio, ma dal fondo del cielo in ogni direzione. Quando guardiamo il cielo, a occhio nudo o con un telescopio, vediamo sempre sullo sfondo un velo completamente nero. Che cosa è? Oggi sappiamo che quel fondo nero non è completamente privo di luce; osservato con strumenti adeguati, esso ci rivela il debolissimo bagliore del cosmo nascente. Paradossalmente è proprio l’oscurità del cielo che contiene il massimo della luce dell’universo. Una oscurità a noi oggi poco famigliare, e che era invece una presenza potente e misteriosa per tante generazioni che ci hanno preceduto, fino alle notti preistoriche degli uomini di Cro-Magnon. Quel fondo del cielo è letteralmente l’immagine dell’origine. Ogni essere umano, in qualsiasi luogo o epoca della storia, abbia alzato gli occhi al cielo, in qualunque direzione, ha guardato verso lo stesso punto: l’origine dell’universo

 

 

Allegati