N.02
Marzo/Aprile 2018

Fede per dilatare la vita

Ciò che ci manca è anzitutto la mancanza di futuro. Questa è la povertà più stringente che oggi affligge l’Italia e genera tanta rabbia e rancore in tanti, tantissimi. Soprattutto giovani.

I dati del Rapporto Censis 2017 sono impietosi. La stragrande maggioranza degli italiani dichiara di non riuscire a vedere davanti a sé un futuro concretamente possibile. Un avvenire promettente. Incoraggiante. La solitudine, il senso di vuoto e il… vuoto di senso sono tarli che rodono la vita di molti. Soprattutto giovani.

C’è una via per passare dalla noia alla gioia? Dalla paura alla speranza? Dalla rabbia alla fiducia? La via è una sola: si chiama vocazione che, si sa (si sa?), significa chiamata per una missione. Noi umani veniamo pro-vocati all’esistenza dall’Amore e siamo con-vocati alla vita per amare. Per vivere, non per sopravvivere. Non per balconare né per ammalarci di divanite. E’ una tremenda malattia di questi tempi duri e scuri quella che cancella il futuro dalle attese di adolescenti e giovani. Quella che li spaventa per costringerli poi a chiudersi nel presente. Ad autoesiliarsi nella solitudine. A sprofondare nelle sabbie mobili della tristezza. I giovani cristiani credono che Gesù conosce l’antivirus per guarire da questa brutta epidemia che invecchia il mondo e intristisce la vita. Gesù chiama, consegna un compito, impegna per un sogno grande. Si fida dei suoi giovani amici. Li sfida, perché li stima. E ad essi affida una missione, perché li ama.

  1. Scegliere nel tempo dell’incertezza

C’era una volta un tale che guidava la macchina lungo una scogliera, chiedendosi se Dio esistesse o meno. A forza di rimanere fissato su questo pensiero, si era talmente spinto sul ciglio della strada da precipitare al di sotto. Ma fortuna volle che riuscì a saltar fuori dall’auto e ad aggrapparsi ad un albero sospeso nel vuoto. Allora si mise a gridare. “Aiuto, aiuto! C’è qualcuno lassù?”. E sentì una voce dal cielo che gli diceva: “Figlio mio, io sono qui. Basta che tu lasci andare quel ramo, e io ti salverò”. Il tale ci pensa un attimo e poi grida di nuovo: “C’è qualcun altro lassù?”.

Viviamo nel tempo della diffidenza, del dubbio metodico, del sospetto sistematico, della sfiducia generalizzata. Viviamo nel tempo dell’incertezza. I cambiamenti sono talmente accelerati e frenetici che sembra di dover convivere con un terremoto inesorabile, accanito. Tutto traballa. E non se ne vede la fine…

Si pensi solo per un attimo alla relazione di coppia. Nel film Casomai, di D’Alatri, a chi le chiede come immagina il suo imminente rapporto matrimoniale, la protagonista risponde che la rappresentazione più adeguata che le viene in mente è quella della performance di due pattinatori su ghiaccio che devono cercare di restare in equilibrio mentre, con apparente leggerezza danzano insieme.

Ad ostacolare la capacità dei giovani di scegliere ci sono poi difficoltà legate alla condizione di precarietà: la fatica a trovare lavoro o la sua drammatica mancanza; gli ostacoli nel costruirsi un’autonomia economica, l’impossibilità di stabilizzare il proprio percorso professionale.

A questo riguardo è interessante – e drammatico – il quadro tracciato dalla Sintesi delle risposte diocesane al questionario in preparazione al Sinodo 2018. Questi i tratti di una situazione in via di peggioramento. L’Italia non è un paese per giovani. Nell’arco degli ultimi 18 anni ne abbiamo persi quasi 2milioni. Inoltre i giovani italiani under 29 scelgono di stare in famiglia per motivi affettivi, ma soprattutto per questioni economiche e sociali. Ancora: la fascia giovanile tra i 15 e i 29 anni, sempre in Italia, ha perso oltre 1milione e 500mila posti di lavoro, dal 2004 al 2016. I nostri giovani, proprio a causa della difficoltà a trovare lavoro, risultano essere più pessimisti e sfiduciati dei loro coetanei europei. Siamo il paese europeo con il più alto numero di NEET, ossia giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano, non hanno un lavoro, non sono impegnati in corsi di formazione professionale. Nel 2004 la quota dei NEET era pari al 19,4%; a partire dal 2008 è salita vertiginosamente al 26,2%. Nel 2016 la percentuale era di un ragazzo su 4 che non lavorava, non studiava, non si formava o si aggiornava.

Inoltre è da rilevare che oggi le evidenze di un tempo non sono più evidenti. L’esistenza di Dio in passato era evidente come la nostra personale esistenza. Oggi però viviamo in una società consumistica, nella quale il supermarket del religioso è aperto “h 24” e fa affari profumati. Così le persone scelgono una fede, o scelgono di non sceglierne alcuna, oppure scelgono di combinare un menù fai-da-te in cui c’è di tutto un po’.

E poi abbiamo paura: della malattia, dell’incidente, dell’infortunio. Abbiamo paura dell’insuccesso, della sconfitta, del fallimento. Abbiamo paura della crisi, della diversità, della violenza. Abbiamo paura del futuro, della vecchiaia, della morte. Ci eravamo illusi che l’alba radiosa del terzo Millennio ci avrebbe portato benessere, prosperità e pace, ma l’11 settembre del 2001 ci ha fatto nuovamente affondare nelle sabbie mobili dell’ansia e dell’angoscia. Viviamo smarriti e insicuri: ci sentiamo vulnerabili e minacciati. E per difenderci, ci chiudiamo a riccio, ci asserragliamo nel rifugio più sotterraneo della nostra presunta impenetrabile fortezza, dove accumuliamo ossessivamente viveri e munizioni. E intanto continuiamo ad assicurarci contro furti, infortuni e sinistri vari. Ma rimane la sindrome dell’assedio. E la paura non passa…

Oggi la nostra si presenta come la cultura dell’ansia cronica e dell’angoscia sistematica. Soffriamo di una profonda insicurezza. Nonostante – o proprio per questo, almeno in Occidente – siamo più protetti e garantiti. Abbiamo cure mediche più efficaci, trasporti più sicuri, territori più e meglio difesi. Oggi possiamo controllare tante cose: la fertilità delle donne e la nascita dei figli. Possiamo controllare almeno in parte le forze della natura, l’andamento dell’economia. Ma paradossalmente è proprio la cultura del controllo a generare angoscia. Con la crisi finanziaria che, dal 2008, continua a mordere implacabile, ci siamo scoperti tutti più indifesi e vulnerabili. E spesso ci sembra di essere esposti al naufragio: quante volte ci pare di dover affrontare – nella traversata della vita – tempeste paurose che rischiano di travolgerci?!

  1. Perché avete paura? Non avete ancora fede?

Nel vangelo di Marco è molto evidenziato il contrasto tra la paura e la fede. Lo si riscontra in particolare nell’episodio della tempesta sedata, riportato nel brano di Mc 1,35-41.

Quella notte sul lago in tempesta i discepoli di Gesù hanno vissuto un’esperienza terrificante. Fino a quel brutto giorno avevano conosciuto un Maestro travolgente. Capace di infiammare le folle. Tenero e potente con i malati. Vigoroso e imbattibile nella lotta contro i demoni. Autorevole come nessun altro quando parlava dell’amore di Dio. Capace di incatenare con il suo sguardo magnetico uomini massicci e muscolosi come loro. Ma adesso si trovano in mezzo alla burrasca, sotto un cielo nero pesto, su una povera barca che volteggia impazzita. Trascinata su e giù dalle onde schiumose di un lago diventato improvvisamente intrattabile e ringhioso come un mastino inferocito. Loro – i compagni di Gesù – il lago lo chiamano mare e fin da piccoli hanno imparato a temerlo perché solo a prezzo di molto sudore concede qualche raro pesce da vendere, mentre non si sazia mai di rubare giovinezza e salute – e non poche volte perfino la stessa vita – a quei poveri diavoli di pescatori dei villaggi circostanti. Per questo il mare per loro è simbolo del male, soprattutto quando scoppia l’uragano e il lago di Cafarnao rassomiglia a un enorme ossesso scatenato.

Ma ora, nel cuore in subbuglio dei discepoli, alla paura si aggiunge l’angoscia: come mai, mentre essi tremano di spavento, il Maestro dorme sonni beati, tranquillamente disteso a poppa, su un morbido cuscino? Sicurezza invincibile per la propria sorte personale, comunque vadano le cose? Indifferenza superiore e distaccata per la sorte di quegli uomini che, pure, per lui hanno lasciato lavoro e famiglia? Dal petto dei discepoli in preda al panico esplode il grido accorato: “Maestro, non t’importa che moriamo?”. Ecco il virus del sospetto che ha aggredito la loro mente e ha scatenato la tempesta dell’angoscia nel loro povero cuore: mettono in dubbio che a Gesù importi veramente di loro, della loro vita e incolumità. Con quel rimprovero sfrontato gli apostoli dimostrano di non fidarsi di Gesù, di non credere fino in fondo nel suo amore, nella sua volontà disinteressata di prendersi cura delle persone a lui affidate, nella sua premura gratuita nei confronti degli amici, soprattutto quando versano, come ora, letteralmente in… brutte acque.

Al Maestro, invece, importa della vita dei suoi compagni, eccome! In lungo e in largo nel vangelo brilla l’instancabile generosità del Maestro, che preferisce sempre il bene dei suoi al proprio successo e alla propria salvezza personale. Costantemente antepone la vita dei discepoli alla propria. Quando verranno per arrestarlo nel Getsemani, l’unica preoccupazione sarà per i Dodici: “Se è me che cercate, lasciate che questi se ne vadano” (Gv 18,8).

Ecco la risposta del Maestro al grido angosciato dei compagni di traversata, una risposta da par suo: pronta e autorevole. Solenne, rapida, risolutiva. “Destatosi, sgridò il vento e disse al mare: ‘Taci, calmati!’”. Questo stile di intervento da parte di Gesù lo conosciamo già. Ritornano qui due verbi che abbiamo incontrato nel primo “miracolo” di Gesù – in realtà si è trattato di un esorcismo – da lui operato in quella giornata-tipo di Cafarnao. Il primo verbo è sgridare, rivolto al vento infuriato, come il Maestro aveva fatto con l’indemoniato della sinagoga. L’altro verbo è rivolto al mare, al quale Gesù comanda di tacere, letteralmente “mettersi la museruola”, espressione tipica, perché in ebraico il vento o il mare non “urla”, come diciamo noi, ma “abbaia”, quasi fosse un cane rognoso.

Dunque il mare si comporta come un energumeno spiritato? Ebbene, Gesù lo tratta come solo un esorcista esperto sa fare. Neanche stavolta il Maestro manca il colpo; e il risultato non si fa attendere: “il vento cessò e vi fu grande bonaccia”. Ma Gesù è rimasto colpito al cuore dall’incredulità dei discepoli. Di qui il suo rimprovero amaro: “Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?”.

La lezione è chiara: il contrario della paura non è il coraggio, è la fede. L’unica forza che può salvarci dal gorgo asfissiante della disperazione è la fede-fiducia in Dio, il quale è infinitamente più buono e più potente di noi: “Riversate su di lui (Dio) – raccomandava san Pietro – ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi” (1Pt 5,7). “Un giorno – narra un apologo molto caro a M.L. King – la paura bussò alla porta; la fede andò ad aprire: non c’era nessuno”.

  1. Il Dio in cui NON credo

La fede aiuta a scegliere (=discernimento) nella misura in cui è vera fede. E la fede è vera quando è fede nel Dio vero, nella sua immagine autentica, quella rivelataci da Gesù di Nazaret. Per questo occorre ricordare che “il contrario della fede non è l’incredulità, è l’idolatria” (Bonhoeffer). E’ indispensabile quindi che i credenti facciano piazza pulita delle non poche immagini deviate di Dio, che circolano anche tra di loro. In effetti, diversi credenti rischiano di dire di ad una immagine deformata di Dio, mentre diversi non credenti rischiano di dire di no a un Dio che di fatto non c’è, non c’è stato mai e mai ci sarà. Ho l’impressione che diversi atei non credono in un Dio in cui anch’io non credo.

No, io non crederò mai in un dio che si apposti dietro una curva per cogliermi in fallo e tendermi una rappresaglia per “farmela pagare”. Che si diverta a fare il guastafeste, che ami il dolore e giochi a condannare, e se la spassi a “mandare” all’inferno. Che metta il disco rosso alle vere gioie dei suoi figli e non accetti una sedia nelle nostre feste umane. Che si arrabbi per le molte “debolezze” che ci affliggono e sia incapace di sorridere di fronte alle sciocche monellerie di cui siamo molto abili. Che si lasci incapsulare in una formula teologica, si faccia capire solo dai sapientoni, e poi non risulti accessibile ai poveri e simpatico ai piccoli. Che sia un nonno buonista o un vecchietto bacchettone, da ricattare o di cui approfittare a cuor leggero, o che tratti con la stessa bilancia la vittima e il carnefice. Che faccia l’indifferente di fronte alle lacrime dei bambini innocenti, alle ferite delle ragazzine abusate, alle sofferenze degli omosessuali derisi o delle donne trattate come selvaggina. Che sia onnipotente, ma non misericordioso, perché altrimenti mi potrebbe incenerire. O che sia onnisciente, ma non altrettanto benevolo e compassionevole, perché diversamente il suo forsennato rovistare nel mio passato, me lo renderebbe sgradevole e irritante. Che mi chieda la fede e mi spenga la ragione. Che si imponga a me con l’evidenza di una “prova” indiscutibile o prevarichi su di me con il peso di una superiorità schiacciante. Che si atteggi con noi come un padre-padrone e non invece come il geloso custode della nostra libertà più solida e matura e come il più tenace collaboratore della nostra gioia più certa e più grande.

E’ importante permettere alla fede di fare tabula rasa delle immagini idolatriche che deturpano la vera Icona, quella di Dio, rivelataci da Gesù in forma insuperabile. Al suo tempo farisei e sadducei avevano messo in circolo una immagine insopportabile di Dio. Pensare che di sabato un bambino poteva strillare quanto voleva, ma alla mamma non era affatto consentito di allattarlo. E non si poteva assolutamente mangiare neanche l’uovo di una gallina che razzolasse sulla strada di un pubblicano. Se fossimo vissuti noi a quel tempo, avremmo detto: “Ci manca il respiro”. In effetti il Maestro di Nazaret tagliava corto: “Il sabato è per l’uomo, non l’uomo per il sabato” (Mc 2,27).

  1. “Mi fido di te”, dice Dio

Da piccolo, ero molto timido. Mi ha aiutato mio padre a vincere la paura di sbagliare e a sconfiggere il panico nel momento di espormi e di rischiare. Ad ogni svolta della vita, mi ripeteva: “Dobbiamo mettere paura alla paura. Dai, ce la puoi fare. Io mi fido di te”. Crescendo ho imparato che quella voce faceva da eco alla voce di Dio Padre, l’Abbà dolce e forte di Gesù. Quando ho scelto di chiedere di essere ordinato prete, ho sentito, quasi sottovoce, il soffio della Voce che mi sussurrava: “Francesco, mi fido di te”. Analogamente, quando ho accettato di diventare rettore di seminario: mi sembrava un bastimento sul punto di colare a picco. E lo stesso, quando ho accolto la chiamata a diventare vescovo. Ora la Voce mi risuona come un buon giorno, ogni giorno, appena mi sveglio: “Non temere. Anche oggi sarò con te. Io mi fido di te”. E’ un lieve sussurro. L’ho ascoltato anche stamattina.

Questo è il Dio in cui credo. E’ il Padre-Abbà che mi ha sognato e mi ha ‘inventato’, come un suo figlio unico, singolare, irripetibile. Nello sterminato deposito degli infiniti esseri possibili, lui ha scelto proprio me. Non mi ha fabbricato come un robotino, più freddo di un automa anaffettivo e solitario. Mi ha detto: “Vieni. Io ho bisogno di te. Uno come te non c’è mai stato, né mai ci sarà. Ora vai, Io mi fido di te”. Al mio paese i vecchi dicevano che Dio ci fa “a cera persa”: ci plasma e ci modella come in uno stampo, fatto di cera fusa. Ma poi, lo stampo, lo butta. Non lo ricicla mica per qualcun altro. Perché lui “sa contare fino ad 1”. Arrivato a 1, riparte da zero.

La stessa Voce mi ha parlato – anche se io ne avrei preso coscienza solo più tardi – quando sono stato battezzato: “Tu sei unico ai miei occhi. Un cristiano come te non c’è mai stato né mai ci sarà. Tu sei ‘programmato’ sul mio Figlio Gesù. Non ne devi diventare una copia sbiadita. Ne puoi/devi essere una immagine fedele, e però (perciò!) originale”.

Di questo Dio, che si fida di me, io mi fido. A questo Dio, che si affida a me, io mi affido. Perché è il Dio della misericordia più generosa che afferma la sua grandezza nel fare grandi i suoi figli, a cominciare dai più piccoli e più poveri. Che non si diverte a mettermi paura: Che non frappone gelide distanze, ma si lascia avvicinare e dare del tu. Mi fido e confido in lui, perché è il Dio della misericordia più umile, che esprime la sua onnipotenza riducendosi, per amore, alla totale impotenza. Ed è sceso nel fondo più profondo dell’abisso per raccoglierci tutti a braccia spalancate quando cadiamo giù. E ci guarda non dall’alto in basso, ma sempre dal basso in alto. Mi fido e nelle sue mani affido la mia vita, perché è il Dio della misericordia più gratuita, che sulla croce preferisce mille volte sacrificarsi e morire, lui, per l’uomo, anziché veder morire l’uomo per lui. Perché è un Dio fatto così: rinuncia a salvare se stesso pur di salvare tutti noi.

  1. Quale sarà il mio posto?

Ritorno su uno dei verbi della costellazione della fiducia: oltre fidarsi e affidarsi, è il verbo con-fidare, da cui viene confidenza. Letteralmente (dal latino confiteor) significa credere insieme. Abbiamo bisogno di testimoni che ci diano il coraggio di avere fiducia e di assumerci dei rischi. Quando Dio ci chiama, noi vorremmo in qualche modo stipulare una bella polizza di assicurazione per ottenere garanzie di un esito positivo. Così non funziona. Ma ci aiutiamo insieme, l’un l’altro, non però come le persone che a capodanno si danno coraggio a vicenda per tuffarsi nelle acque gelide del mare. Ma come dei pellegrini che si sostengono gli uni gli altri. “Ci rallegriamo con quelli che sono nella gioia; piangiamo con quelli che sono nel pianto” (cfr Rm 12,15).

Reciprocamente, a vicenda, gli uni gli altri: espressioni che in greco sono rese con l’avverbio pronominale allelon. E’ uno dei pochissimi vocaboli che mancano nell’elenco, peraltro minuzioso, del Kittel, il vocabolario dei termini greci del Nuovo Testamento, dove vengono setacciate tutte le parole, perfino le più minute, del testo sacro. Eppure quella paroletta allelon vi ricorre spessissimo. Eccone un piccolo campionario: stimatevi a vicenda, salutatevi gli uni gli altri, perdonatevi reciprocamente ecc. Sono tutte espressioni che rientrano nel contesto del con-fidare o “credere insieme”, il verbo del pellegrinaggio della fede del popolo di Dio.

I martiri sono i testimoni o confessori della fede. E confessare la fede dice molto di più che professare con le parole ciò in cui crediamo. Significa firmare il credo con il sangue. Esprime il sottoscrivere a prezzo della vita quella fede che è stata il senso di una vita trasfigurata dal sapore, dal colore, dall’odore del Vangelo. I confessori della fede sono quei testimoni che con la loro vita parlano così: “Avrò fiducia in Lui. Qualsiasi cosa e dovunque io sia, non potrò mai essere buttato via. Perché Lui non fa nulla inutilmente. E sa bene quello che fa e farà di me” (J.H. Newman). Sono quei testimoni che basta guardarli in volto, per condividere quanto ha scritto Emmanuel Mounier, nel libro L’avventura cristiana: “Il portiere della storia non ascolterà i vostri argomenti; guarderà i vostri volti”.

In sintesi. Mi fido di Dio. Mi affido a Dio. Confido in Dio. Lui non mi ha mai deluso né mai mi deluderà. Gesù, il Figlio di Dio, è diventato un essere umano per farci diventare esseri divini. Il mondo conosce soltanto il passaggio dalla vita alla morte. La fede conosce anche l’impossibile ritorno: dalla morte alla vita. Possiamo allora vivere – scrive san Paolo – addirittura “come vivi ritornati dai morti” (Rm 6,13). E in un altro passo si legge: “Cristo Gesù ha vinto la morte e ha fatto brillare la vita per mezzo del Vangelo” (2Tm 1,10).

La fede non solo dilata la vita, ma la fa fiorire. Addirittura la fa ‘brillare’! C’è una vita più umana di quella cristiana?

Questa è la fede che permette di discernere il disegno di Dio sulla nostra vita e che consente di rispondere alla domanda: “Quale sarà il mio futuro nella tua storia, Signore?”. Ecco la risposta di un credente credibile.

Quale sarà il mio posto nella casa di Dio?

Lo so, non mi farai fare brutta figura, non mi farai sentire creatura che non serve a niente, perché tu sei fatto così: quando serve una pietra per la tua costruzione, prendi il primo ciottolo che incontri, lo guardi con infinita tenerezza e lo rendi quella pietra di cui hai bisogno: ora splendente come un diamante, ora opaca e ferma come una roccia, ma sempre adatta al tuo scopo.

Cosa farai di questo ciottolo che sono io, di questo piccolo sasso che tu hai creato e che lavori ogni giorno con la potenza della tua pazienza, con la forza invincibile del tuo amore trasfigurante? Tu fai cose inaspettate, gloriose. Getti là le cianfrusaglie e ti metti a cesellare la mia vita. Se mi metti sotto un pavimento che nessuno vede ma che sostiene lo splendore dello zaffiro o in cima a una cupola che tutti guardano e ne restano abbagliati, ha poca importanza. Importante è trovarmi là dove tu mi metti, senza ritardi.

E io, per quanto pietra, sento di avere una voce: voglio gridarti, o Dio, la mia felicità di trovarmi nelle tue mani malleabile, per renderti servizio, per essere tempio della tua gloria (A. Ballestrero).