N.02
Marzo/Aprile 2018

L’arte di ascoltare: esercizi di concretezza

1.Sapere sapienziale e post-modernità.

La scoperta che l’arte di ascoltare ha un ruolo fondamentale per rimanere in sella in un mondo complesso, ha le sue radici nella antica cultura sapienziale.Tutte le principali religioni e le tradizioni di narrativa orale di numerose culture popolari si caratterizzano per un loro prezioso patrimonio di storie e parabole nelle quali questa abilità si dimostra il viatico della saggezza e la chiave per affrontare con successo conflitti apparentemente inestricabili. Vi faccio un paio di esempi, uno di matrice religiosa (presente con poche variazioni nella filosofia zen, sufi, tradizione buddista, nei testi sacri della religione cristiana, islamica, nella cosmologia animista) e uno che ritroviamo in numerose gustose narrazioni popolari.

Prima storia: il giudice saggio.

Due litiganti portano la loro disputa di fronte a un giudice. Il giudice ascolta il primo litigante con grande attenzione, e “Tu hai ragione!”, esclama.
Poi ascolta il secondo e “Tu hai ragione!”, dice anche a lui. Uno del pubblico: “Eccellenza, non possono aver ragione entrambi!”

Il giudice ci pensa sopra un attimo e poi, serafico: “Hai ragione anche tu!”

Seconda storia: l’uomo povero e pio.

C’era una volta un contadino povero e pio il quale viveva in una capanna assieme alla moglie e alla madre divenuta cieca. Ogni mattina, all’alba, era solito recarsi al tempio per affrontare le preoccupazioni della vita con animo più sereno Ma una certa mattina…

Dio: “Per premiare la tua fede, esprimi un desiderio ed io lo esaudirò”

Uomo: “Non saprei cosa chiedere! Posso rispondere domani dopo aver consultato madre e moglie?” Tutto sconvolto e tremante torna verso casa.

Incontra la madre:“Figlio,se tu chiederai al Signore di ridarmi la vista, ti sarò riconoscente e ti benedirò per tutto il resto della mia vita!”

Arriva la moglie: “COOSAA?? Sprecare una occasione così per ridare gli occhi a una vecchia che fra un paio di anni li chiuderà per sempre?? TU devi chiedere che il Signore ci benedica con un figlio, che sarà la nostra consolazione e ci accudirà nella vecchiaia!!”

Le due donne si accusano a vicenda di egoismo e se le danno di santa ragione.

L’uomo povero e pio, sconsolato, va a chiedere aiuto a un vecchio saggio.

Uomo: “Una grande fortuna si è ribaltata in una grande disgrazia: qualsiasi cosa io scelga, il dissidio regnerà per sempre in famiglia.Mia madre vuole la vista, mia moglie un figlio ed io vorrei più di tutto la garanzia del pane quotidiano.”

Vecchio saggio: “L’unica tua disgrazia è il tuo modo di ragionare. Che senso ha chiedersi se è meglio favorire la moglie contro la madre o viceversa? Tua madre ha ragione quando vuole la vista, tua moglie ha ragione quando vuole un figlio e tu hai ragione a chiedere un minimo di benessere economico. Rilassati, sdraiati su questo materassino e vedrai che all’alba saprai cosa chiedere al Signore.”

Così fu. All’alba l’uomo si svegliò sentendosi rinato. Abbracciò il vecchio saggio, abbracciò con gli occhi il mare e il sole, e leggero, ridente, quasi danzante si avviò al tempio.

Uomo: “Signore, ti ringrazio per avermi concesso, nella tua infinita bontà, di ascoltare tutti i membri della mia famiglia. Ecco dunque la nostra richiesta. Mia madre è vecchia e cieca e il suo più grande desiderio prima di morire sarebbe il seguente: poter vedere un nipotino che cresce allegro e sano perché non gli manca mai da mangiare !”

Entrambe queste storielle ci spiazzano, ci sorprendono, ci fanno sorridere, ma oggigiorno ci sembrano campate in aria, non applicabili nella vita quotidiana. Una volta non era così,  in altre epoche grazie a queste storie anche la persona più semplice si rendeva conto che per affrontare le difficoltà della vita spesso si deve uscire dai binari, mettere in atto dinamiche a prima vista “assurde”, paradossali. Man mano che il razionalismo della modernità ha finito con l’inglobare tutte le sfere della vita quotidiana, l’aspirazione alla saggezza è stata smarrita, è andata persa. E noi oggi siamo abituati a dare per scontato che l’ascolto attivo di cui queste storie sono illustrazioni non può funzionare per una quantità di ragioni. Eccone alcune:

  1. SE fra due litiganti diamo ragione a uno, automaticamente diamo torto all’altro
  2. SE diamo “ragione a chi sbaglia”, tradiamo il nostro ruolo di educatori. La nostra autorevolezza è legata alla capacità di offrire le giuste risposte e soluzioni.
  3. LA verità è una e oggettiva. A contare sono i fatti e non le opinioni. “La ragione si da ai matti.”
  4. SE tutti hanno ragione, avendo idee contrastanti, ci si blocca. Non si va avanti. Prendere una decisione richiede il coraggio di scontentare qualcuno.

In realtà nel corso del XXmo secolo pensatori sempre più numerosi in tutti i campi della scienza e del sapere sono giunti alla conclusione che il modo di vedere e di ragionare qui sintetizzato nei punti ABCD, si rivela troppo semplicistico e inadeguato (“riduzionista”) rispetto alla complessità dei dilemmi che ci troviamo a dover risolvere sia nel mondo della fisica, che della biologia che in quello sociale sempre più interconnesso e differenziato. Questi studiosi e ricercatori sottoscriverebbero senza esitazioni l’esclamazione del vecchio saggio all’uomo povero e pio: “L’unica tua disgrazia è il tuo modo di ragionare.”

La principale differenza fra le “due culture sapienziali” (pre e post moderna) è che una volta questo approccio apparentemente assurdo e paradossale rimaneva patrimonio di pochi sapienti e dalla gente comune veniva interpretato come la manifestazione di una certa “furbizia”, di quella scaltrezza pratica (tipica di Ulisse e anche di Penelope col suo espediente della tela) che i greci chiamavano “metis.” Invece oggi siamo in grado di descrivere con precisione le dinamiche intelligenti (e non “furbe”) che stanno alla base dell’ascolto attivo e siamo in grado di insegnarlo e praticarlo in modo sistematico.Vediamo dunque di approfondire la conoscenza di queste dinamiche. Per concludere dedicherò un paragrafo al “pensiero soporifero” inteso come la malattia più grave e diffusa del nostro tempo e principale ostacolo a far diventare queste preziose conoscenze e pratiche, sapere comune.

  1. Complessità, ascolto attivo e intelligenza collettiva.

“Complesso” è un contesto che nessuno dei soggetti (o degli elementi) che vi fanno parte è in grado di governare, di orientare in un senso voluto. Dove va, quali sviluppi segue un sistema complesso dipende sempre dalla collaborazione di tutti i soggetti (o gli elementi) che lo compongono. Ne discende che se gli attori che operano entro un certo sistema divenuto complesso (una scuola, una famiglia, un quartiere, ecc) non sanno come instaurare relazioni di collaborazione, di confronto creativo, sono destinati alla frustrazione, a rimanere prigionieri di atteggiamenti di vuota denuncia e vittimismo.

Gli scienziati del comportamento ai quali facevo riferimento qui sopra hanno di conseguenza concentrato l’attenzione sullo studio delle dinamiche di gruppo che impediscono o viceversa favoriscono la capacità di trasformare le tensioni, i conflitti in risorse conoscitive e occasioni di collaborazione creativa. Questi studi sono consistiti e ancor oggi consistono fondamentalmente nella raccolta di una quantità di storie di conflitti con esito giudicato positivo da tutte le parti interessate e nella disamina di tutti gli elementi (da quelli macoscopici a quelli apparentemente più marginali) di diversità rispetto ad analoghi conflitti che invece si perpetuano o vanno in escalation. La conclusione convergente, nonostante si tratti di ricerche svolte da studiosi con retroterra teorici parzialmente diversi in anni diversi, è che nei conflitti che hanno esito positivo e creativo le parti non si considerano né amiche né nemiche, ma solutrici di problemi comuni la cui definizione è il risultato di un reciproco ascolto attivo. In altre parole le parti sono consapevoli che il cedere alla tentazione di bloccare la discussione sui pro e contro di ogni singola posizione, limita le opzioni invece di moltiplicarle. In particolare impedisce di inquadrare la situazione contemporaneamente da tutti i punti di vista e di cercare una eventuale soluzione capace di rispondere alle preoccupazioni di fondo di ognuno.

La letteratura sulla gestione creativa dei conflitti è di conseguenza tipicamente intessuta di una quantità di storie, di casi ed esempi che riguardano ogni sfera della realtà storica e contemporanea. Si va dal primo accordo di Camp David sui rapporti fra Egitto e Israele alla crisi dei missili a Cuba, dalle dispute fra l’inquilino e il padrone di casa a quella fra i genitori e i figli adolescenti e così via. Uno dei primi e più semplici esempi che si trova in tutti i libri di testo è quello della mamma che entra in cucina dove i figli stanno litigando per un’ arancia: “E’ mio!” “No, l’ho preso prima io!“ “Lasciamelo!” Impazientita, li sgrida, afferra l’arancia e la taglia a metà. Non l’avesse mai fatto! Entrambi le si scagliano contro. Infatti la ragazza voleva grattare l’intera buccia per una torta e il maschio farsi una spremuta.

Questa storia illustra due principi dell’arte di ascoltare. Il primo: anche quando il significato di un certo evento ci sembra assolutamente scontato (ognuno dei due figli si comporta da egoista, vuole l’arancia tutta per sé) faremmo bene – specialment se si tratta di un conflitto – a verificare la interpretazione delle altre parti in causa. Se la madre l’avesso fatto, la soluzione sarebbe stata diversa da quella che ha frettolosamente messo in atto. In secondo luogo questo esempio rende chiaro che alla domanda “Cosa succede qui?” una risposta adeguata non può limitarsi alla semplice descrizione dei fatti. I fatti sono importanti (i figli sono in cucina e si stanno contendendo una arancia) ma “da soli” non parlano, si prestano a una molteplicità di interpretazioni. Per capire “cosa succede” i fatti devono essere integrati dai punti di vista dei partecipanti alla scena. Comportandosi secondo questi principi la madre non rinuncia alla sua funzione di educatrice; al contrario impartisce ai figli col suo esempio una lezione molto precisa e preziosa: che è sempre saggio ascoltare e capire i diversi punti di vista prima di decidere e agire. Per trovare una “nostra” soluzione al posto della ”mia” contro “la tua”, dobbiamo non aver fretta di arrivare alle conclusioni e assumere che in molti casi “l’ascolto attivo è la miglior risposta.”

Dominante nella nostra cultura è l’ascolto giudicante (“ascolto passivo”) che ci induce a interpretare tutto quello che un altro dice e fa in termini di giusto/sbagliato,vero/falso, amico/nemico, razionale/irrazionale,intelligente/sciocco, ecc. Al contrario la regola dell’arte di ascoltare che meglio definisce l’ascolto attivo è la seguente: “Se vuoi comprendere quel che un altro sta dicendo, devi assumere che ha ragione e chiedergli di aiutarti a vedere le cose e gli eventi dalla sua prospettiva.” Grazie all’ascolto attivo ognuno si rende conto che il punto di vista degli altri amplia e arricchisce il proprio e che questo ci consente di cogliere sfaccettature e complessità dei problemi che altrimenti avremmo ignorato o sottovalutato. Questa constatazione e le emozioni di meraviglia e di più pieno protagonismo (empowerment) che la accompagnano corrispondono a quel fenomeno che va sotto il nome di  “intelligenza collettiva.”

  1. L’umorismo.

Possiamo individuare tre tipi di esperienze ricorrenti nella nostra vita quotidiana che si prestano ad essere utilizzate come palestre di allenamento in ascolto attivo: le tensioni e i conflitti, la comunicazione interculturale e l’umorismo. L’ascolto attivo è l’ingrediente indispensabile per il pieno apprezzamento dei vantaggi esplorativi e di conoscenza di tutti e tre questi campi esperienziali. In particolare l’umorismo consente di illustrare alcune fondamentali dinamiche in atto nella buona gestione anche degli altri due. Qui per ragioni di spazio porto un solo esempio relativo all’umorismo e uno relativo alla buona comunicazione interculturale. Partiamo da una battuta di Mark Twain: “Non è vero che smettere di fumare è difficile. Io smetto tutti i giorni!” La struttura di questa comunicazione è tipicamente composta da una prima affermazione che viene intesa da tutti gli interlocutori secondo il senso comune (“abbandonare in modo definitivo il fumo, non è difficile”) seguita da una “battuta” che capovolge quella interpretazione, ne fa emergere un’altra (“smettere” nel senso di continuare a fumare con delle pause). Quindi i motti di spirito, le barzellette, sono delle “trappole linguistiche” che ci allenano a capire tre cose: 1.che il senso comune non esaurisce le possibilità interpretative, 2. che il presentarsi di altre possibilità ci spiazza, è vissuto come una “smentita”, 3. alla quale si può reagire con divertimento invece che con astio. Tipicamente una esperienza conflittuale è un contesto di smentita, un contesto in cui sentiamo che la nostra autorevolezza interpretativa è minacciata. Quando io affermo A e lui afferma non -A, la mia reazione automatica è di astio, di offesa. Nel caso della battuta di spirito la risata prende il posto del rancore e vi è collaborazione nella accoglienza dell’imprevisto grazie al contesto “giocoso”, “non serio”. Ma anche la madre dell’esempio dell’arancia del paragrafo precedente, per passare dal “è così” a un atteggiamento di apertura verso altre interpretazioni degli stessi fatti, deve in un certo senso “darsi una battuta”, assumere un atteggiamento di flessibilità giocosa. Deve “non prendersi troppo sul serio”. Sigmund Freud, nella introduzione a Il motto di spirito e le sue relazioni con l’inconscio, sostiene che il motto di spirito consente una “doppia illuminazione”: la prima è relativa ai contenuti della comunicazione, per cui nell’esempio di Mark Twain capiamo che “smettere” può avere anche un diverso significato da quello più ovvio, la seconda illuminazione riguarda i rapporti fra conoscenza, potere e arroganza. La battuta, spiazzandoci, ci permette di renderci conto di quanto eravamo arroganti quando davamo per scontato che la nostra interpretazione fosse l’unica giusta, vera, possibile. Riflettere sull’umorismo ci aiuta a capire che vedere le cose nella loro complessità spesso è doloroso (implica un superamento di modi più immediati e semplicistici di intendere) e che per elaborare queste ferite e poter usare questa saggezza è necessaria leggerezza e flessibilità, un atteggiamento “giocoso”. Ci sono anche situazioni in cui A è vero e non A è sbagliato, stop. Ma sempre più spesso, nella nostra società, nel nostro mondo globale, il conflitto è il sintomo di qualcosa che abbiamo trascurato, di punti di vista di cui non eravamo consapevoli e una occasione preziosa di ampliamento delle nostre conoscenze.

La stessa dinamica di fondo vale anche nella buona comunicazione interculturale. Solo un piccolo esempio. Anni fa, una delle uditrici alle mie lezioni sulla comunicazione interculturale al Politecnico di Milano era una giovane suora originaria del Sud Korea. Quando ho chiesto di farmi degli esempi tratti dalla loro vita di problemi nella comunicazione interculturale, si è fatta coraggio e ha raccontato di trovarsi in grande difficoltà perché la madre superiora del convento in cui era ospitata ogni volta che si incontravano nei corridoi o in un mensa la aggrediva ordinando con voce autoritaria: “Guardami negli occhi!! Guardami negli occhi!!” Il problema nasce dal fatto che per la giovane suora, come succede in numerose culture sia orientali che africane, “guardare una persona autorevole negli occhi”, è un atto di grande insolenza e mancanza di rispetto. Quindi uno “stesso comportamento” per la madre superiora ha un senso (di trasparenza, di umiltà, di rispetto ecc) e per la giovane suora il senso opposto. Come ci insegna il giudice saggio “hanno ragione tutte e due.” Il primo passo quindi (ascolto attivo) sarebbe di dare atto di questo. Ma a complicazione ulteriore, in questo caso la giovane suora ci ha detto che lei non avrebbe mai osato intavolare con la madre superiora che la intimoriva, un discorso di “meta-comunicazione” cioè di comunicazione sulla comunicazione fra loro. La soluzione che abbiamo proposto è stata di trovare un padre spirituale o comunque una parte terza autorevole in grado di fare da mediatore culturale. Una mediazione/traduzione culturale che avrebbe dovuto anche concordare un qualche altro comportamento, sostitutivo del guardare negli occhi, capace di trasmettere il senso di affidabilità, trasparenza  e rispetto che la madre superiora giustamente esigeva.

  1. La conoscenza soporifera.

Arriviamo adesso all’ascolto attivo come esercizio di concretezza. Chiediamoci: come mai nonostante sia ormai molto chiaro che il mondo ha bisogno di un riorientamento radicale (sia nella cura dell’ambiente che nel modo di concepire e organizzare la convivenza), le “buone pratiche“ che pure si stanno moltiplicando ovunque, non “fanno storia”, vengono percepite come eccezioni non ripetibili? Cosa ci impedisce di trasformare il disagio in risorsa conoscitiva e in iniziative volte al cambiamento? L’antropologo/epistemologo Gregory Bateson nella introduzione al suo libro Verso una ecologia della mente individua una causa che trovo illuminante e che chiama: ”pensiero soporifero.” La illustra con la seguente scenetta, tratta da una commedia di Moliere: “I tre dottori medioevali chiedono al candidato: “Perché l’oppio fa dormire?” e quello trionfante: “Perché esso possiede un principio soporifero, una virtù dormitiva”” Questa risposta ai tempi di Moliere faceva ridere perché è tautologica: “Fa dormire perché contiene qualcosa che fa dormire.” Oggigiorno non ridiamo più perché quello soporifero è diventata la forma più pervasiva di pensiero. Ogni volta che descriviamo un certo comportamento in termini di “è negato per /portato per…” (per gli studi, per le lingue, per lo sport, per il comando) stiamo fornendo una spiegazione del tipo: “non contiene (o contiene)  la virtù… studiativa”. Bateson: “Soporifera è un tipo di spiegazione che suppone che la causa di un comportamento sia una parola astratta derivata dal comportamento stesso” Questo vale anche per le spiegazioni del tipo: “ è colpa di” (della burocrazia, la dirigenza, l’egoismo, la natura umana, la casta, il ministero) Come funziona un pensiero non soporifero? Funziona volgendo la attenzione a situazioni specifiche, contingenti che funzionano bene e osservandone i comportamenti non “in generale”, ma in specifiche e concrete e contingenti situazioni critiche, di crisi. La “direttrice brava” (descrizione soporifera) cosa ha fatto di diverso rispetto a una direttrice “normale” in situazione analoga( descrizione non soporifera) ? Un esempio (vero). I bambini di una ottima scuola elementare pubblica di Roma all’uscita alle quattro del pomeriggio vogliono rimanere nel cortile a giocare tra loro.Una direttrice “normale” direbbe: “Non posso dare il permesso. Non ci sono più i bidelli e se si fanno male la responsabilità sarebbe mia.” Anche la direttrice “in gamba” ha detto questo, ma poi rivolta ai genitori e nonni ha aggiunto: “Cosa facciamo?” Ha mantenuto aperta la esplorazione di altre soluzioni. Un genitore ha detto: “Mi informo se possiamo assicurarci come genitori” Era possiible, si sono organizzati e così si è risolto il problema. In sintesi: per ampliare l’arco delle opzioni ci vuole: qualcuno che apre l’arco delle possibilità, qualcun altro che accetta di collaborare e la capacità di mettere in atto le soluzioni trovate o inventate. In altre parole: ascolto attivo, un animo lieto e una metodologia umoristica.