Fragili imbarcazioni, nuovi approdi
Uno sguardo alla situazione vocazionale in Italia
La vocazione cristiana è un modo di intendere l’esistenza che ha la sua visibilità in uno stile di vita, in una peculiare interpretazione della realtà, in scelte comportamentali che in taluni casi possono essere in dissonanza rispetto a quelle più diffuse e condivise. Se fino alla metà del secolo scorso l’esperienza cristiana era centrale nella società italiana e dava fondamento al patto sociale che unisce al di là delle diversità e delle contrapposizioni dei localismi, attualmente la religione si trova posta verso la periferia, in una relativa marginalità. Credere in Dio e appartenere alla Chiesa sono scelte sempre più soggettive che non esprimono un “noi” sociale, bensì la singolarità di un “io”. La Chiesa e le istituzioni che in essa operano si trovano a confrontarsi non con l’ostilità di un rifiuto, ma piuttosto con una più sottile e radicale crisi di credibilità e legittimità.
Ciò emerge con crescente evidenza ed intensità nelle nuove generazioni. Quando ad un ventenne/trentenne si chiede se egli creda in Dio la risposta è nella maggioranza dei casi affermativa, ma con l’implicita riserva sul fatto che questo “credere” non è più inteso come sinonimo di certezza, di convinzione al di là di ogni dubbio. È piuttosto un “credere probabilistico”, leggero, incerto, intendendo che “probabilmente è così”, “mi piacerebbe che fosse così”, “certe volte penso che sia così” espressioni che relativizzano e limitano la “certezza” (A. Castegnaro, Fuori dal recinto. Giovani, fede, chiesa: uno sguardo diverso, Ancora, Milano 2013, ). Un Dio, comunque, percepito come buono, misericordioso, nel senso di comprensivo verso le fragilità morali e il peccato, che è possibile conosce e incontrare nell’intimità di sé stessi, nella meditazione/preghiera personale, nella contemplazione del creato senza bisogno di particolari mediazioni. Nel contempo si afferma un modo di intendere la libertà religiosa non solo come possibilità di scegliere l’una o l’altra forma di credenza, ma come opportunità di selezionare all’interno di una organica proposta religiosa (nel caso specifico quella caratterizzante la Chiesa cattolica) ciò che secondo la persona è a lei più congegnale, mettendo da parte il resto. Si delinea come il credere “debole” sia anche un credere con scarso senso di appartenenza ecclesiale.
Ne viene una identità e sensibilità religiosa poco interessata alla relazione ecclesiale, avvertita spesso come superflua, non necessaria, preferendo una autonoma e personale relazione con il sacro, con Dio. Un quadro nel quale si fatica a comprendere la dimensione istituzionale della Chiesa e ciò porta, anche tra quanti si dicono cattolici, a disattenzione verso i problemi strutturali della presenza ecclesiale. Ne viene un distanziamento, un estraniamento che pragmaticamente non impedisce di fruire dei servizi che una struttura parrocchiale o un Istituto religioso possono offrire, senza che questo si traduca in disponibilità per un più ampio coinvolgimento. Emerge in tutto ciò un distacco sempre più ampio tra l’autocomprensione che la Chiesa ha della propria identità, per la quale non è possibile separare il Cristo dalla Chiesa, e quanto invece viene empiricamente percepito e rappresentato dalle persone per le quali da un lato c’è Dio e a fianco l’istituzione. Due realtà non coincidenti e con le quali, di conseguenza, ci si relaziona in modo diverso, delineando il passaggio ad un cattolicesimo con deboli legami di appartenenza.
È all’interno di tale sensibilità religiosa che vanno letti i dati statistici sulla religiosità in Italia. Se il battesimo realizza il legame profondo con Cristo e si manifesta in un vitale inserimento nella realtà ecclesiale, il dato italiano (95,5% di battezzati) delinea un panorama di società cristiana che di fatto non ha riscontro reale. Andando infatti a vedere l’andamento di quanti dichiarano di avere una regolare frequenza settimanale all’assemblea liturgica abbiamo un dato complessivo che si assesta attorno al 30% con notevoli variazioni interne. Si va, infatti, da un minimo del 15% tra i ventenni ad un massimo del 58% nei bambini dai 6 ai 13 anni, mentre per i sessantenni/settantenni si assesta sul 47%. È all’interno di questa consistente minoranza dei frequentanti regolari che, di fatto, si pone anche la questione vocazionale.
La percezione che l’esperienza cristiana in quanto tale sia “vocazione” è processo spirituale che, al presente, caratterizza una minoranza dei battezzati. La dimensione vocazionale è compresa più come disponibilità ad impegnarsi in un servizio ecclesiale che espressione/testimonianza di una personale relazione con Dio. Ne è riprova il fatto che raramente nel linguaggio quotidiano si lega vocazione ad esperienza familiare. Da questo punto di vista la secolarizzazione, che negli ultimi decenni ha trasformato in profondità l’identità della famiglia, ha accentuato la distanza.
Ciò significa che i valori della tradizione cristiana sono sempre meno influenti nell’orientare le scelte dei coniugi. Lo si coglie con peculiare evidenza nella scarsa attenzione che si pone alla formazione religiosa dei figli, delegata volentieri alla parrocchia e all’insegnamento religioso nella scuola. Il distacco degli stili di vita e delle sensibilità spirituali che nel corso del tempo avevano delineato una specifica fisionomia all’identità della società italiana si fa più evidente tra le nuove generazioni.
Sintetizzando i risultati delle molte ricerche che nell’ultimo decennio hanno esplorato il ‘pianeta giovani’, emerge una dinamica del credere articolata su tre atteggiamenti. Vi è un 30% di ventenni che sostanzialmente si ritrova nella proposta cristiana ed al suo interno sta quel 10% che manifesta una adesione di fede convinta e attiva. All’opposto, si colloca un 20% di persone che sono nell’area della non-credenza con al suo interno l’8% costituito da quanti si dichiarano specificamente atei. Nel mezzo, sta l’area maggioritaria: quel 50% che si colloca sul crinale tra credenza e non-credenza, persone nelle quali permane un qualche interesse e apertura verso la dimensione soprannaturale, ma con una scarsa partecipazione ai riti e più in generale alla vita ecclesiale. Persone spesso critiche verso quei tratti della realtà di chiesa che si percepiscono come potere opaco, poco trasparente, colluso e disonesto nella gestione delle risorse finanziarie, ma anche capaci di un giudizio positivo su quanto la Chiesa “fa” in termini di servizi assistenziali e formativi. Sono sostanzialmente credenti (in modo molto soggettivo) senza una effettiva esperienza di appartenenza.
Tra i ‘molto convinti’ (10%) e i ‘decisamente atei’ (8%) sta questa terra di mezzo nella quale l’apprezzamento per il messaggio evangelico e la figura di Gesù si intreccia con la fatica, se non proprio con l’ostilità, ad accettare il magistero ecclesiale ritenuto fonte di una normatività troppo invasiva, severa e arcigna nei suoi precetti. In una inchiesta sulla religiosità nel Triveneto, mettendo a confronto la percezione di Dio e della Chiesa per quanto riguarda vicinanza/lontananza, indulgenza/severità, conforto/disagio, emerge come tra i ventenni (Tab.2) la relazione con Dio sia molto più “calda” e positiva di quella che invece si realizza con la Chiesa. Sorge a questo punto spontanea una domanda: perché un giovane dovrebbe cercare la “mediazione” o l’appartenenza ad una Chiesa severa e distante per giungere ad un Dio più vicino, buono e accogliente? Un ulteriore segnale della divaricazione tra credere ed appartenere la si coglie nella convinzione in crescita tra le nuove generazioni che si possa pienamente giungere a Dio senza passare attraverso la mediazione sacramentale della Chiesa. Il 54,6% dei giovani tra i 18 e 24 anni condivide l’affermazione che “non c’è bisogno di preti e della Chiesa, in quanto ognuno può intendersela da solo con Dio”, una posizione fatta propria dal 44,7% di quanti hanno 25-29 anni e solo dal 37,6% fra i trentenni. È come se la velocità del distacco dalla Chiesa si venisse ad accelerare tra i più giovani.
Dal punto di vista vocazionale, l’allentarsi del legame tra credere in Dio ed appartenere alla Chiesa porta certamente ad un minor interesse per un impegno di servizio ecclesiale in particolare lì dove esso si caratterizza in termini di mediazione liturgico-sacramentale e questo a prescindere dal fatto che abbia carattere di definitività o sia temporaneo, richieda l’obbligo del celibato o possa essere realizzato da sposato. Diversa invece la disponibilità a prendere in considerazione la vocazione come testimonianza di carità, impegno di solidale condivisone della povertà, attiva partecipazione ad iniziative di promozione sociale, aiutando e sostenendo il variegato arcipelago del volontariato.
Sta proprio nella svalutazione della fisionomia istituzionale una delle ragioni che spiegano il venir meno della disponibilità a confrontarsi con l’ipotesi di una possibile vocazione ecclesiale, come impegno in ruoli e compiti che è un’istituzione, e non il singolo, a definire. Se l’istituzione non è più luogo necessario per incontrare Dio, allora è ancor più difficile accettare il rischio di un affidamento incondizionato ad una istituzione (diocesi o istituto religioso) che segni ogni aspetto della propria esistenza.
In tale situazione è difficile aspettarsi per i prossimi anni (o decenni?) una inversione di tendenza nella dinamica vocazionale. Anzi non sembra irragionevole ipotizzare una ulteriore diminuzione nel numero di coloro che intendono avvicinarsi al presbiterato o alla vita religiosa, e già in tal senso si muove da una decina d’anni l’andamento, verso il basso, del numero di seminaristi, novizi, novizie (Tab. 3).
Ci si potrebbe tuttavia attendere una maggiore disponibilità a riflettere sull’ipotesi di vocazione in quei giovani che vivono il loro essere cattolici nella consapevolezza che la fede va congiunta alla coerenza della testimonianza. Sono quanti non si limitano ad una regolare pratica del precetto festivo, ma coltivano una frequente preghiera, partecipano alle attività della comunità parrocchiale o di un movimento ecclesiale ed hanno un atteggiamento di ascolto e accoglienza del magistero. Spesso alle spalle troviamo una famiglia che si è attivamente coinvolta nella formazione religiosa dei propri membri ed una realtà parrocchiale che ne ha sostenuto e rafforzato l’impegno educativo. Dal punto di vista numerico, sono una minoranza, indicativamente intorno al 10% di coloro che si dichiarano cristiani, ma proprio l’impegno che pongono a ridurre la distanza tra adesione di fede e comportamento (rituale–etico–relazionale) fa di essi una risorsa qualitativamente molto importante nella Chiesa. Potremmo dire che essi sono “i vicini”, quelli che ordinariamente incontriamo negli oratori e nei gruppi giovanili. Quando ad un campione di queste persone che conoscono dall’interno la realtà ecclesiale si è posta la domanda di quale sarebbe stata la reazione di fronte ad un amico/a qualora costui avesse manifestato l’intenzione di entrare in un Istituto religioso, il 23% ha manifestato un atteggiamento di piena adesione, di appoggio, il 75% si è collocato su di una linea di partecipata indifferenza, mentre il 26% dichiara d’essersi trovato stupito ed incredulo di fronte ad una scelta del tutto imprevista.
Nella realtà esistenziale dei giovani, anche di quelli “vicini” e partecipi dell’ambiente ecclesiale, sembra esserci poco spazio per una ipotesi di vocazione presbiterale e/o religiosa. Un atteggiamento dietro al quale c’è anche una rappresentazione della scelta vocazionale nella quale gli ostacoli (e gli svantaggi) sono di gran lunga superiori alle ricadute positive. Fa difficoltà, anzitutto, il non potersi sposare (62%), il venirsi a trovare in condizioni esistenziali caratterizzate da solitudine relazionale (46%) e la definitività della scelta (46%). C’è una evidente ritrosia a riconoscersi in una ipotesi vocazionale “classica”, mentre se si pensa ad una partecipazione ecclesiale la si ipotizza, come già evidenziato, piuttosto nel volontariato, nella flessibilità dell’impegno, nella reversibilità delle scelte, limitando al massimo lacci e laccioli giuridici e vincoli istituzionali.
Verso quale futuro?
È all’interno di una realtà sociale, culturale ed ecclesiale dalle molte sfaccettature che vanno posti gli interrogativi sull’andamento delle vocazioni al sacerdozio, alla vita consacrata e, per quel poco che si conosce, al diaconato permanente; con l’avvertenza che in realtà il quadro vocazionale è più ampio. Infatti, mancano dati sulla consistenza delle nuove comunità, sulle associazioni pubbliche e private di fedeli, sull’eremitismo diocesano, sull’ordo virginum,sul servizio ministeriale e di testimonianza della carità nei movimenti, cioè sulle modalità di realizzare la vocazione all’interno della istruzione ecclesiale dopo il Vaticano II.
Il dato che emerge osservando l’andamento dei seminaristi diocesani, religiosi/religiose di voti semplici (Tab. 3), è di un brusco calo tra il 1970 ed il 1975 (-47,0% di seminaristi e -28,4% tra i religiosi) e ciò delinea effettivamente uno scenario di “crisi”, con un prosieguo fino al 1980 (-15,9% si seminaristi e -19,1% di religiosi). Poi si ha un ventennio di stabilizzazione e, dal 2000, si rimanifesta una tendenza al calo (tra il 2000 e il 2005 si ha un -11,3% di seminaristi, -4,9% di religiosi e -15,7% di religiose). Per una corretta comprensione della documentazione statistica va tenuto presente che tra i religiosi di voti temporanei, una quota stimabile intorno al 30% è costituta da persone di nazionalità non italiana (mancano dati attendibili per le religiose, dove da sondaggi parziali la quota di straniere tra le giovani è sul 40% e per i seminaristi, per i quali si attesterebbe sul 20%). Un quadro, comunque, nel suo insieme positivo, in particolare se lo paragoniamo con la situazione negli altri paesi europei. Un quarto dei seminaristi europei è in Italia, come lo è il 40% dei religiosi e delle religiose di voti temporanei.
La “crisi” non sta, almeno al momento attuale, nell’assenza di vocazioni, anche se negli ultimi anni si coglie la dinamica verso un ulteriore calo; il vero nodo che sta davanti alla Chiesa italiana è la pratica impossibilità di mantenere l’odierna modalità di presenza sul territorio. Questo perché le vocazioni sono numericamente inadeguate a garantire il ricambio generazionale.
La risposta, da parte delle diocesi e degli Istituti religiosi a tale stato di cose, è stata cercata su due versanti: da un lato “importare” vocazioni da paesi (prima Polonia ed Est Europa, ora Africa ed Asia) dove esse sono relativamente abbondanti e dall’altro, realizzare parziali innovazioni che però non cambiano la fisionomia del modello attuale (unità pastorali, accorpamento dei conventi, dismissione parziale di opere, ecc.). Sono due linee di azione “tattiche” che vengono incontro all’immediato, alla necessità di fronteggiare le emergenze, ma non delineano una strategia, una visione d’insieme. Se, come è probabile, da un lato si accentuerà la secolarizzazione della società italiana e dall’altro proseguirà (o si accentuerà) la scarsa propensione dei giovani ad accogliere l’ipotesi di un impegno ecclesiale come prete e/o consacrato, si renderà evidente l’impossibilità di dare continuità al servizio ministeriale e sacramentale così come esso oggi si configura.
Nella diminuita disponibilità a confrontarsi con l’ipotesi di una vocazione al servizio ecclesiale non c’è solo il riflesso di un soggettivo distanziamento dalla istituzione Chiesa. Non va dimenticato che la consapevolezza e l’accoglienza della vocazione ad un ministero ordinato o alla consacrazione religiosa ha bisogno, ordinariamente, di un contesto familiare e comunitario che sia di sostegno ed incoraggiamento. La vocazione religiosa o presbiterale oggi ha perso molto dello appealnon solo sociale, ma anche spirituale che aveva in passato. Questo lo si riscontra anzitutto nelle famiglie che non sognano per i figli una “professione” ecclesiastica e quando si trovano a confrontarsi con la scelta vocazionale finiscono sì con l’accettarla (o subirla?), ma raramente la accompagnano con incoraggiamento, appoggio, solidale condivisione. Di qui quell’“insufficienza” vocazionale che si allarga anno dopo anno e solo parzialmente potrà essere compensata incrementando l’accoglienza di ecclesiastici che vengono dall’estero. L’esperienza di questi anni ha evidenziato problemi di accettazione dovuti a differenze di cultura, di tradizione spirituale, di comprensione delle peculiarità regionali. Inoltre, un clero per la gran parte straniero, di fatto, comunica l’immagine di una Chiesa non più vitalmente radicata nella storia della società italiana, accentuando ulteriormente le dinamiche di allontanamento di chi “crede senza appartenere”.
Una presenza territoriale che, di necessità, non potrà più essere gestita in totoda clero e religiosi/religiose implica un profondo ripensamento nella organizzazione delle comunità ecclesiali con l’emergere di una differente articolazione dei ministeri ed un maggior coinvolgimento del laicato.
È una trasformazione che domanda alla Chiesa italiana non solo progettualità, ossia realistica visione di un futuro possibile, ma anche capacità di individuare risorse umane per attuare il cambiamento. Da questo punto di vista, vi sono potenzialità che finora sono state poco apprezzate. Mi riferisco specificamente a due realtà: l’incremento negli ultimi quaranta anni del diaconato permanente (Tab. 4), in particolare in ambito diocesano, e la crescita di un laicato teologicamente colto.
I diaconi non hanno ancora nella realtà ecclesiale italiana una fisionomia, una visibilità in termini di operatività e ruoli (Cf. A. Castegnaro, M. Chilese, Uomini che servono. L’incerta rinascita del diaconato permanente,Edizioni Messaggero, Padova 2015) pur essendo il paese europeo che ne ha il maggior numero (il 30%). A questo basso profilo ha concorso finora anche la marginalità con la quale si realizza la loro presenza nelle parrocchie. Solo il 7% svolge un servizio a tempo pieno, i rimanenti hanno lavoro o professione che lascia spazio solo al part time. A limitare le possibilità e gli ambiti dell’impegno pastorale concorrono anche un’età media piuttosto alta (59 anni) e la presenza del legame familiare (97% è sposato); fattori che, di fatto, facilitano più il servizio liturgico, anziché la catechesi, la carità, la gestione amministrativa. Molto differenziata da diocesi a diocesi è la qualità della loro formazione teologica: si va dalla laurea in teologia a specifici e limitati corsi di formazione teologico-pastorali.
Vi è poi la risorsa del laicato e, specificamente, di quelle persone che, accogliendo la lezione del Vaticano II, si sono impegnate ad acquisire una buona formazione teologica, creando anzitutto i presupposti per una qualificazione della catechesi e poi dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole dove il corpo docenti è costituito per il 90% da laici. Mancano dati su quanti siano i laici in possesso di una laurea in Scienze religiose, ma, a partire dal dato sui docenti di IRC, è ragionevole stimare che siano intorno ai 24.000/25.000. Una presenza diffusa sul territorio (attualmente sono 83 gli Istituti di Scienze Religiose frequentati da oltre 9.000 studenti), che fatica però a trovare una sua specifica espressione in ambito ecclesiale.
Il declino del modello di organizzazione che ha segnato la presenza ecclesiale nella società italiana degli ultimi secoli non è indolore, il travaglio di questi anni ce lo attesta e con ogni probabilità, ci accompagnerà per un bel po’. Il rapido cambiamento nella sensibilità religiosa, in particolare tra i giovani e le donne, con l’emergere di un credere molto soggettivo e l’allentarsi dei legami con l’istituzione ecclesiale ha preso in contropiede chi ipotizzava una Italia religiosamente diversa dal resto d’Europa, meno esposta al vento della secolarizzazione, più salda nelle sue radici popolari, più robusta nei legami di appartenenza ecclesiale.
Il calo e l’invecchiamento del personale religioso è solo la punta più facilmente visibile di un declino che non è solo numerico, ma anche di credibilità, di elaborazione propositiva, di intelligenza della realtà sociale e culturale. Questo indebolirsi della capacità di comprendere e governare il cambiamento della domanda religiosa nella società italiana dice come, al di là della retorica auto-celebrativa, non sia scontata la capacità dell’istituzione ecclesiale di rinnovare in profondità le modalità dell’annuncio evangelico, superando quel centralismo clericale che, stancamente, declina per mancanza di vocazioni, ma che comunque rimane rassicurante proprio per la sua immobilità.
Tra continuità e discontinuità tutti ci troviamo a veleggiare con fragili imbarcazioni nel mare mosso e insidioso di una società religiosamente distratta e indifferente. Tornare indietro, cercare nel passato sicurezze definitivamente scomparse è sogno dal quale alcuni sono tentati, ma accentuerebbe estraneità e lontananza da una realtàalla quale si è mandati per essere lievito. Andare avanti è difficile e faticoso, anche se guidati dalla mappa tracciata dal Concilio Vaticano II. Solo chi ha fede è capace, in tali frangenti, di sperare che, quando e come Dio vorrà, si raggiungerà l’approdo di una ritrovata capacità della vita ecclesiale a individuare parole e segni che siano per questo tempo testimonianza dell’amore e della compassione di Dio.