N.03
Maggio/Giugno 2019

In ginocchio, a lode della sua gloria

In ginocchio, a lode della Sua gloria

La vita religiosa esiste nella Chiesa per essere un segno chiaro. Sì, proprio come quando, passando per strada, incroci un segnale che ti attira l’attenzione, tu ti giri da quella parte perché intuisci che c’è qualcosa che vale la pena vedere, conoscere, seguire. I religiosi in mezzo al mondo sono quel segno che lascia intravedere la bellezza di Dio, la sua tenerezza, il suo amore di Padre e di Sposo, di Fratello e di Amico. I religiosi esistono perché, come da una finestra all’interno di una stanza puoi vedere il cielo, così attraverso di loro ciascun uomo e ciascun cristiano possa vedere l’Infinito. È la dimensione profetica della vita religiosa, per cui il religioso, solo per il fatto di esistere, va oltre il tempo e lo spazio per dire il già e non ancora di una vita non legata prima di tutto a vincoli caduchi, ma che ha i suoi criteri, le sue leggi, la sua ragione d’essere ben piantati con le radici nell’eternità.

È la vocazione di chi si lascia attrarre così fortemente da Cristo, per cui tutto diventa secondario all’amore per Lui e per i suoi fratelli. Il religioso lascia perché ha trovato, perché ha incontrato. Attraverso i tre voti di povertà, castità, obbedienza, egli proclama al mondo che Cristo è la sua ricchezza, il suo amore, il suo progetto di vita. Inscrive nella sua carne e nel suo percorso esistenziale la verità che Dio basta; Dio è sufficiente in modo sovrabbondante a una vita perché sia riempita di senso e di pienezza.

Ma il religioso tutto questo non lo vuole dire da solo: sceglie come stile di vita la comunione di una fraternità; non vive solitario, ma, all’interno di un istituto religioso, mette la sua vita nelle mani di fratelli e sorelle con cui condividere l’avventura della sequela, con cui camminare verso l’unità che riveli l’essere discepoli di Cristo, con cui accogliere, con stupore e impegno sempre nuovo, la certezza che la comunità religiosa è, per grazia, «spazio umano abitato dalla Trinità»[1]. Il religioso poi traduce questa scelta totale per il regno di Dio nell’essere «memoria del modo di vivere di Cristo»[2], il quale, durante la sua vita terrena, passò sanando e beneficando tutti (At 10,38). È il dono di sé a Dio nel farsi pane spezzato per ogni fratello e sorella, nelle molteplici fisionomie della carità che via via si presentano al cuore di chi vuole amare. È facile allora trovare religiosi alle avanguardie della carità, in prima linea, o nel nascondimento più totale, consumarsi nel dono, offrirsi per amore, ma anche negli spazi della cultura o del pensiero, per aprire una visione che sia secondo il vangelo e le sue esigenze.

Nella Chiesa sono numerose le facce di quel caleidoscopio che è la vita religiosa. La fantasia creativa dello Spirito lungo i secoli ha ispirato la nascita di molti istituti. Le Suore Adoratrici del Santissimo Sacramento nascono dall’intuizione spirituale del fondatore, san Francesco Spinelli, alla fine dell’Ottocento, nel Nord Italia segnato da povertà ed emarginazione. Risuona forte in don Francesco il richiamo a rispondere all’umanità incarnata di Cristo, che nei fratelli più poveri chiede di esserci, di farsi cura, di farsi prossimo. Ma come essere capaci, nella propria povertà di uomini e donne, di soccorrere l’umanità sofferente? Per don Francesco e le sue Adoratrici la strada è chiara: «Adorate il Santissimo Sacramento con l’amore più ardente e da esso attingete la fiamma della carità al servizio dei più poveri»[3]. Una frase, un carisma tradotto in poche parole, un progetto di vita, uno spiraglio di salvezza. È la vita quotidiana di centinaia di Suore Adoratrici che, quotidianamente, in ginocchio davanti a Gesù Eucaristia – giorno e notte senza interruzione –, lasciano che il loro cuore si apra nella lode, nell’adorazione, nella conversazione, nella riparazione e nell’intercessione, per accogliere l’amore eucaristico, fatto di semplicità, di vita spezzata, di gratitudine, di piccolezza. Fatto di perdono, quella «vendetta dei santi»[4]che il Fondatore ci ha testimoniato e lasciato come testamento. Un amore da riversare sui più poveri, lì dove la storia e la Chiesa ci chiamano, in Italia e nel mondo, non come filantropia dettata dal buon cuore, ma mettendosi in ginocchio davanti a ogni fratello, perché l’Adoratrice “ravvisa”, intravede, scorge nel volto dell’altro quello stesso Cristo che ha adorato. Si fa sorella e madre, si fa balsamo e carezza, si fa perdono e annuncio, non perché capace da se stessa, ma perché ogni giorno la fonte dell’amore eucaristico l’avvolge di quella forza che non viene meno.

Come l’Adoratrice realizza il suo essere pane spezzato e vino versato? Lì, dove c’è un povero che grida, nella semplicità di chi sa di essere solo briciole, umile istituto, poca cosa, ma nelle mani di Dio, le Adoratrici aprono le loro case per condividere l’amore ricevuto con i disabili, gli anziani, i bambini nelle scuole, i malati negli ospedali, le ragazze che hanno bisogno di rifarsi una vita dopo esperienze ai limiti della morte, i ragazzi negli oratori e nei cammini pastorali. Ai giovani in particolare offriamo la possibilità di condividere la quotidianità del nostro pregare e del nostro servire: esperienze organizzate e tempi liberi, in cui i ragazzi possano incontrare il Signore, condividendo – nella logica eucaristica – una vita scandita dagli orari di preghiera, dai sacramenti, dall’adorazione giorno e notte, dalla parola di Dio e dal servizio proprio di ogni comunità.

Nella piccolezza del cuore di ogni Adoratrice, davanti a ogni persona che si affaccia alle sue porte, nasce dolce lo stupore che si fa rendimento di grazie e stile di vita: «Adoratrici per vocazione, viviamo tutta la nostra esistenza in atteggiamento adorante, offrendo il nostro essere e il nostro operare a lode della sua gloria»[5].

 

[1]Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica Vita Consecrata, 22.

[2]Giovanni Paolo II, Vita Consecrata, 41-42.

[3]Regola di Vita e Comunione Suore Adoratrici del SS. Sacramento, 2010, 180.

[4]F. Spinelli, Lettere alle Suore, Pavoniane, Milano 1989, n. 574.

[5]Regola di Vita e Comunione, 20.