N.04
Luglio/Agosto 2021

Pornografia

La comunicazione è sempre più il vasto orizzonte del presente, la sua dimensione totalizzante, il livello più diffuso d’esistenza immediata, e sempre meno un contesto circoscritto, un’azione specifica, una fase o un momento dell’agire sociale.  

 

L’infrazione alla regola 

Contrariamente a quanto si tende a ritenere di solito, nel tempo della comunicazione – il nostro tempo – i divieti e i tabù non sono affatto diminuiti ma si sono moltiplicati, coerentemente con l’incessante, esorbitante crescita di codici e regole implicite soggiacenti a tutti i processi d’interazione. L’infrazione della regola non è più il cimento simbolico di pochi che cercano la distinzione dalla massa, ma la routine di una maggioranza anagraficamente e culturalmente trasversale. Uno dei più eclatanti segnali di questo stato di cose è forse l’esplosione e la normalizzazione della pornografia come risposta non già al vecchio tabù sessuale quanto piuttosto come antinomia della relazionalità, dell’intimità, della vita sponsale. La pornografia è, in effetti, una delle categorie della cultura contemporanea più influenzate dall’esplosione della comunicazione digitale; e per converso, essa costituisce pure il registro, la prospettiva tra le più diffuse nella comunicazione contemporanea, anche e forse soprattutto dove non ce lo si aspetterebbe.  

 

Il food porn 

Molto al di là e al di fuori della più classica pornografia propriamente detta, quella centrata sull’esposizione della sessualità genitale in tutte le sue varianti e le sue rappresentazioni, da qualche anno ormai il porno ha cominciato silenziosamente a invadere campi della comunicazione fin lì inimmaginabili. Forse il primo e più celebre esempio è quello del “food porn”: la pornografia alimentare o enogastronimca che spinge moltissimi a esporre, rappresentare, raccontare, collezionare, osservare, ricercare immagini create intorno al cibo come atto primariamente ludico, che presto si carica di significati secondari impliciti. Il senso alla base del fenomeno è tradurre sul fronte del piacere del palato l’esibizionismo e il voyeurismo, comuni all’esperienza sessuale, secondo un gioco parodistico che diventa poi gioco narrativo. Un compulsivo e contagioso bisogno di esporre e condividere – attraverso immagini prodotte secondo specifici codici – l’aspetto invitante di una pietanza per poter trarre piacere più che dal suo diretto, legittimo e immediato consumo, da uno spostamento feticistico, da un investimento che partendo dall’iconografico punta all’immaginario, che dal piano della necessità alimentare lancia il cibo nella sfera del simbolico, della forma pura. Una pratica divenuta ormai quasi gesto inconsulto, un tic, che si presenta prima come desiderio immedi(t)ato d’immortalare un momento lieto, poi come passaggio, frammento di autonarrazione, finendo quasi inevitabilmente – e spesso inconsapevolmente – per ricadere in un microedonismo d’accumulo quotidiano.  

 

Istinto esibizionistico 

Dalle riprese e dalle fotografie del cibo, questo esercizio del piacere a portata di telefono si è rapidamente travasata in molti altri ambiti, allargata a molte altre categorie parallele. Di fatto sviluppando un catalogo di declinazioni omologo e parallelo a quello tipico della produzione pornografica che in rete è stata fin dall’inizio caratterizzata dalla necessità di presentarsi secondo raccolte, collezioni, gallerie tassonomicamente organizzate.  

Ampliando, adattando, ripetendo e accumulando l’istinto esibizionistico, assecondando la ricerca di soddisfazione di un piacere intenso e immediato, la collocazione di sé o degli oggetti del proprio piacere in mondi fittizi, lucidi e semplificati, si è applicato questo genere di pensiero pornografico ai soggetti più disparati, dalla superfetazione del proprio universo di oggetti quotidiani all’agiografia delle occasioni mondane, dalla costruzione di microepopee feriali alla lievitazione immaginifica dei corpi e dei gesti in plastici atlanti di felicità e successo. 

 

Esasperata individualità 

La logica della hit parade e la dimensione della performance sono quasi diventati i due assi lungo i quali questo mondo parallelo si ordina e configura: l’immagine di sé, la rappresentazione dei propri averi, qualunque pezzo di questa macro-non-narrazione falsamente documentaristica, falsamente immediata, sono automaticamente e inevitabilmente valutati come migliori o peggiori di tutti gli altri, e di conseguenza situati sopra o sotto, prima o dopo, avanti o indietro rispetto a tutti gli altri in una illusoria classifica universale; e questo all’interno di un complessivo e costante spasimo performativo, sempre esponendo allo sguardo degli altri la messa in forma – la deformazione – di se stessi, della propria storia, del proprio mondo. Un serissimo gioco che si muove incessantemente tra la ricerca di sempre nuove occasioni di soddisfazione edonistica, e la tensione alla trasformazione del mondo in luminescente cascata dei codici del desiderio.  

 

È questa una delle fasi della comunicazione contemporanea in cui si perde di più la funzione della costruzione di rapporti, di congiunzioni e confronti, di costruzione di comunità e ambienti condivisi dentro i quali partecipare non reclusi nella propria esasperata individualità, ma aperti all’incontro e allo scambio con l’altro. Infine alla possibilità della relazione.  

 

 

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