N.02
Marzo/Aprile 2012

Dallo spirito del timore allo spirito dell’Amore

Quando con il Direttore del Centro Nazionale Vocazioni si ragionava su come aprire il Convegno, si era alla ricerca di un nome che desse lustro. Dopo aver sfogliato la margherita dei nomi ci siamo ritrovati con un fiore spoglio e disadorno, semplicemente perché volevamo un testimone, uno che si mettesse in gioco con semplicità, ma anche con verità e profondità, uno che accettasse di parlare in prima persona, raccontare che è possibile rispondere all’amore di Dio anche in questo tempo attraversato da questi sentimenti così diffusi di declino irreversibile, di futuro impossibile, specie se paragonati a tempi ricchi, di opportunità e di promesse.

Dal cilindro abbiamo tirato fuori Padre Gabriele Ferrari e siamo contenti di averlo qui in mezzo a noi.

 

Nasce a Rovereto (TN) nel 1940 e dopo la formazione al Seminario di Trento diventa sacerdote nel 1964. Pochi mesi dopo entra nei Missionari Saveriani. Dopo due anni di formazione parte per il Burundi, dove lavora nella pastorale parrocchiale per cinque anni. Nel 1971 diventa Consigliere dei Superiori Generali, arriva a Roma. Nel 1977 diventa Superiore Generale dei Missionari Saveriani, incarico che ricoprirà per ben 12 anni, fino al 1989. Dopo un anno sabbatico negli Stati Uniti torna in Italia e qualche anno dopo finalmente ritorna in Burundi. Da più di 10 anni spende la sua vita in Italia, a Tavernerio, vicino Como, come formatore, come predicatore, come persona che con la saggezza aiuta molti a camminare e sei mesi all’anno li trascorre invece in Burundi come docente di ecclesiologia e missiologia ed ecumenismo.

L’indicativo viene prima dell’imperativo. Tante volte però, nella  Chiesa, la morale viene prima della fede. Il Papa, nel suo messaggio per  la 49a Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, ci invita a sentire che Dio rimane la fonte di ogni dono perfetto, di ogni vocazione. Allora ci chiediamo se è un preambolo un po’ retorico o se ci lascia intuire che la fede non è scontata nemmeno per un consacrato.

Non è assolutamente un preambolo retorico, anzi, penso sia la conquista di questi ultimi tempi quella di capire che la morale viene dopo l‘annuncio del Vangelo. Prima si annuncia una bella notizia che ci cambia, ci rinnova, ci sprona a fare qualcos’altro, poi comprendiamo che qualcosa bisogna pur fare. Io credo che sia una grazia del nostro tempo questa di vedere che dobbiamo rileggere il Vangelo, non tanto nel senso materiale della parola, ma di riprenderlo in mano e di annunciarlo. Tanta gente ormai ha immaginato che la Chiesa è la Signora no, quella che dice sempre di no. La Chiesa prima di dire di no dice molti sì, solo che noi non li sentiamo, ma è bene, a mio modo di vedere, che riprendiamo coscienza di questo e che ripartiamo dalla fede prima di partire dalla morale. Credo che questa sia davvero una grazia del nostro tempo e che sia il punto di partenza di ogni pastorale vocazionale.

 In una riflessione sulla sua vita di fede, lei racconta che questa fede l’ha respirata sulle ginocchia dei suoi genitori, in casa. Ricorda lo stile di vita di questo padre e di questa madre, segnato dalla preghiera, dalla pazienza, dalla carità con i poveri che bussavano alla porta di casa. «Mi abituavano a sentire la presenza invisibile di Dio nella mia vita e nella nostra casa» scrive. Eppure, nonostante questo, quando lei torna con la memoria del cuore a quegli anni, confida anche di ritrovare una sfida… Riporto le sue parole: «La paura di restare orfano, di restare solo, di perdersi senza riuscire a trovare la strada di casa, la paura del buio, della notte, delle valli oscure, dei torrenti e delle cascate rumorose…». «Una paura – aggiunge – che mi è rimasta a lungo e che sento tuttora istintivamente in me, anche se ho girato il mondo intero più di una volta e mi sono ritrovato nelle situazioni più strane e complesse». Erano gli anni della guerra, ma questa paura forse ha anche un’altra causa…

Penso di sì. Questo mi rimanda indietro alla mia infanzia, dove – come è stato appena detto – ho appreso la fede sulle ginocchia di mio padre e di mia madre. Questo lo voglio dire anche perché molte volte si può pensare che i nostri genitori siano persone tanto semplici che non ci insegnano. Io sono convinto che tutto ciò che mi serve per la vita l’ho appreso là, da mio padre e da mia madre, che la mattina, appena alzati, come prima cosa andavano alla messa, poi venivano a casa e mandavano a messa noi. Cose semplici. Ricordo una vecchietta che veniva a farsi spalmare sulla schiena un intruglio che doveva avere speciali proprietà. Mia madre lo faceva con una pazienza enorme. Noi ragazzi scappavamo quando veniva questa vecchietta e mia madre ci diceva di rimanere perché «è Gesù Cristo che viene a trovarci!».

Così per i poveri del sabato (abitudine ora sparita, non vengono più in casa). Allora venivano e bussavano alla porta. Non ho mai sentito i miei genitori esprimersi nel senso di mandarli via, a guadagnarsi il pane lavorando… Credo di aver appreso la fede di mio padre e di mia madre dalla loro carità, da una carità tale che non può essere dimenticata.

Mio padre faceva parte della Conferenza di San Vincenzo e il pomeriggio del sabato, quando era libero dalla fabbrica (i miei genitori erano operai), veniva a casa per andare a distribuire quelli che allora si chiamavano “i buoni della San Vincenzo”. Mi portava con lui, probabilmente per sollevare mia madre da un disturbatore come ero allora, più che per insegnarmi qualcosa. Mi conduceva a vedere i poveri e lungo la strada mi diceva – me lo ricordo come fosse oggi –: «Stiamo andando a trovare uno che è come Gesù». Andavamo in certe stamberghe della città di Rovereto, in luoghi della città che non erano per nulla belli né simpatici…

Ricordo questa lezione: quando nel 1964 decisi di farmi missionario, mio padre non era convinto, anzi, era contrario. Fosse stato per lui non sarei partito! Era un sant’uomo, ma si era fatta l’idea che mi sarei fatto prete e lui avrebbe fatto il sagrestano o il papà del parroco… Quando ha constatato che me ne andavo non me l’ha perdonata, è andato in crisi. Continuava a domandarmi chi mi avesse messo in testa questa idea. Non mi sentivo di rispondergli. Finché alla fine, quando mi ha messo alle strette perché glielo dicessi, ho perso la pazienza e gli ho risposto: «Papà, te lo devo dire? Tu sei stato a darmi questa idea!». E gli ho ricordato quando andavamo insieme a portare i buoni della San Vincenzo. Mio padre è rimasto senza parole, senza argomenti per controbattere e da allora è stato sempre contento della mia scelta di fare il missionario, anzi, ne è diventato fiero. Se fosse stato ancora in vita quando sono diventato Superiore Generale avrebbe toccato il terzo cielo!

Per tornare alla domanda che mi è stata fatta, rispondo dicendo che ricordo che la mia è stata una fede di paura: di restar solo, di rimanere orfano, di perdermi, smarrirmi nel buio… mi ha sempre accompagnato e ancora oggi mi accompagna, non lo nego. Secondo me questa paura nascondeva la paura di un Dio che, malgrado gli sforzi dei miei genitori, non riusciva ad essere per me un Dio buono. L’ho capito tanti anni dopo ed è stato il mio lungo cammino di fede. Partito da questo Dio che mi faceva paura, il Dio che vedeva e sapeva tutto, quel Dio che abbiamo visto in quel triste triangolo che lo rappresentava, con quell’occhio che ti scrutava e incuteva paura è stato per me un problema. Credo che questo concetto di Dio sia un problema, come lo è stato per me, e che ho risolto, ma con molta e molta fatica…

Ha parlato del 1964, quando suo padre è rimasto disoccupato, con la prospettiva di fare il sagrestano. Lei scrive in uno dei suoi testi a proposito dell’Ordinazione: «Aprì una stagione piena di fervore, ma anche di esteriorità». Sembra un appunto buono per tante Prime Messe, intendo il fervore…

Ho avuto la fortuna di fare il Seminario diocesano a Trento, e (non so se sia stata proprio una fortuna per me) di non far fatica a scuola, di non avere problemi di disciplina… Per quanto io cerchi nella mia memoria, non mi è mai costato… Forse proprio perché non mi è mai costato, non ho mai approfondito a sufficienza certi aspetti della vita cristiana… Veniva spontanea, facile, a quei tempi. Poi i problemi si sono presentati, ma a quel tempo veniva facile… anche tutto l’impianto del Seminario, che tendeva alla festa della Prima Messa, alle Ordinazioni. A distanza di anni, mi pare sia stato causa di una specie di esteriorizzazione della mia vita, mi sono buttato “sul fuori”. Non ho scavato molto dentro di me in quei tempi. Io lavoro in Africa; non sei mesi, ma un trimestre l’anno in Seminario e seguo la vita della gente africana vedendo le feste enormi che fanno per le Prime Messe, per le Professioni.

Non so se da noi si facciano ancora grandi feste… In Africa le feste sono enormi… Mi pare che sia come mettere il carro davanti ai buoi, perché la nostra vera vocazione, o meglio la vera chiamata, o meglio ancora la nostra risposta, non è quella della Prima Messa o della Prima Professione. Mi rendo conto, oggi che dirigo ormai da tanti anni un corso di formazione permanente, che la vera risposta a Dio non la diamo il giorno della Prima Messa. Non sarebbe il caso – secondo me – di far troppa festa. La vera risposta la diamo ben più tardi, dopo le prime grosse difficoltà della vita, quando ci accorgiamo che non è vero che tutto è possibile, anzi, vediamo quanto sia difficile andare avanti. A quel punto la nostra risposta è vera.

Andiamo in Burundi, nei cinque anni dal 1966 al 1971. Siamo all’indomani del Concilio, in clima di sperimentazione e di aggiornamento, con una “pastorale in cantiere”, eppure lei annota: «Tutto ciò non riusciva a portarmi a un’autentica riflessione, a una più profonda intimità con Dio». Perché?

Perché – penso – continuasse quella esteriorizzazione della persona che – senza pretendere di dare un risposta generale – si trattava di un problema non solo mio, ma del momento. Era un momento di novità, di cambiamento… In Burundi poi vi era una grossa comunità con molti cristiani, con molto lavoro che non dà tregua (confessioni, catechesi, Battesimi…). Questa mole di lavoro mi faceva molto bene. Mi ci sono gettato con soddisfazione.

Ricordo un vescovo belga, padre bianco con una ricca esperienza missionaria, che ci dava una libertà enorme nello sperimentare e fare quel che ritenevamo migliore, per poi riferirglielo e valutare insieme se fosse in linea con le indicazioni del Concilio. Non metteva il carro davanti ai buoi, ma ci lasciava lavorare con responsabilità.

Si lavorava con uno slancio notevole. Tutta la nuova organizzazione del Catecumenato, tutto sembrava spingerti a fare… Ed era bello, era soddisfacente! Ricordo quegli anni come anni di vera gioia. Nello stesso tempo questo stile non portava ad interiorizzare quello che si faceva. Oggi, a distanza di tempo, mi domando come io possa aver fatto a spiegare per esempio la bellezza del Battesimo ai catecumeni, senza sentirla io stesso profondamente, pur essendone convinto, senza sentirmi io stesso come rinato nel Catecumenato che predicavo agli altri… Lo stesso per la predicazione.

Chi di voi si fosse trovato a predicare in una lingua diversa dalla propria, sa che occorre ricominciare da frasi semplici come i bambini… Ma dentro questo cammino c’è la grazia ed è la grazia di capire quel che si dice e si gusta la Parola di Dio, ed è bello. Mi domando come abbia fatto ad insegnare il Catechismo, a spiegare il Vangelo, a spiegare San Paolo ai catecumeni, ai cristiani senza esserne io convertito profondamente. Questa è una croce che mi portavo dentro, della quale per la verità non sentivo neanche il peso, in quel momento. A poco a poco è diventato come un vuoto dentro di me che pesava enormemente, ma pesava di vuoto, mi ha fatto star male in quel periodo…

In Europa, in occidente in generale, sono anche gli anni della contestazione anche all’interno della cultura, della società e anche all’interno della Chiesa. Cosa arrivava in Burundi?

Premetto e dico sempre che ho avuto da Dio una grande grazia: quella di passare il ‘68 in Africa. Se nel ‘68 fossi stato in Italia, non so se ora sarei qui a raccontarvi queste cose. Forse sarei sposato con qualche figlio già grande. Nel ‘68, grazie a Dio, ero in Africa. Eppure l’aria del ‘68 soffiava forte anche là… Ma arrivavano per esempio le idee del Catechismo olandese, che noi ammiravamo più di quanto meritasse. Allora sembrava fosse quello il vento della riforma della Chiesa. Il capire quelle verità che ci avevano spiegato in Seminario (de Deo uno e trino…) e che sembravano lontanissime da noi, che non dicevano più niente, reinterpretate nel Catechismo Olandese, ci dava gioia… era un piacere leggerle! Con quell’idea venivano anche altre idee: l’importanza del laicato, per esempio. Per noi non era una novità, perché in Africa se non conti sul laicato puoi fare poco!

Altra idea, quella della Chiesa come Popolo di Dio, come corpo di Cristo… Erano idee che ti scuotevano. In Seminario avevamo studiato la teologia quasi in latino, con categorie scolastiche ben squadrate, si studiavano argomenti che servivano poco…

Queste cose diventavano vive e nello stesso tempo c’era un’aria di secolarizzazione che entrava come a bruciare queste verità. Sembrava giusto di atteggiarsi alla moda, non di negare, ma di togliere l’importanza a queste verità. Erano tempi in cui si parlava molto di promozione umana: quello era tutto il cristianesimo.

Oggi non rinnego niente di tutto il mio passato, però capisco ora che dovevo metterci molto equilibrio, cosa che prima non avevo… Mi meraviglio che i miei confratelli abbiano eletto Consigliere Generale uno squilibrato come ero io a quel tempo. Non sapevo dosare le verità e le affermazioni. Così è stato il ’68.

Dato che non rinnega nulla del passato, mi permetto di andare a sfogliare in quel passato. In quel periodo lei scrive: «Dio e tutto quello che si riferiva alla Chiesa cominciarono ad essere oggetto di dubbio, di critica e di ipotesi. Nel mio universo mentale e religioso in quel periodo Dio subì una specie di eclisse progressiva, anche se impercettibile, che tuttavia poco a poco si fece sentire e che mi causava anche una certa preoccupazione, ma non pareva necessario – conclude – aver troppa fretta di metterci rimedio, perché in fondo mi sentivo uno dei tanti».

Proprio così: mi sentivo uno dei tanti. Mi pareva che fosse alla moda atteggiarsi così. Io non sono mai stato un leopardiano di scelta, quindi lo scetticismo, la tristezza della vita non mi hanno mai colpito. Per fortuna non facevano parte del mio modo di essere.

Ad un certo punto però mi sono sentito alla moda nel criticare, nell’attaccare, nel vedere gli aspetti negativi di tutto quello che era teologia, Chiesa, Istituto religioso… Non dico che si buttasse tutto a mare, perché non è vero. Però tutto veniva passato al setaccio della razionalità. Quello che non si dimostrava vero, di colpo, alle idee chiare e distinte di Descartes, veniva messo da parte. Questo ha purtroppo alimentato la lontananza di Dio dalla mia vita. Ho sempre detto il Breviario (credo di essere uno dei rappresentanti di quella razza in via di estinzione che diceva sempre il Breviario – mi sono sempre fatto scrupolo di non dirlo), però mi rendo conto, oggi più di allora, che a quel tempo veramente Dio non mi diceva niente. Era solo un’idea, finito non tanto nell’iperuranio, no, ma era lontano, come andato in eclissi… C’era, so e sapevo che c’era.

C’è una data nella sua vita, penso il 13 luglio 1967, la morte della  madre. In quella data, Lei dov’ era?

È stata una data spartiacque. Ero partito lasciando mia madre ammalata e non mi facevo illusioni, sapendo che non l’avrei più vista. A quel tempo noi missionari partivamo per dieci anni.

Sicuramente mia madre non sarebbe vissuta altri dieci anni. Di fatto, dopo un anno è morta. Ebbi la notizia il 14 luglio, da un mio confratello. Era il giorno dopo quello dei primi Battesimi di adulti che facevo. Sentire che mia madre era morta proprio in quel giorno fu un colpaccio per me. La morte della madre è uno strappo nella vita – lo sappiamo tutti – che non si aggiusta facilmente.

Neppure mi rendevo conto che, probabilmente, mia madre, pregando per me, aveva fecondato quel mio primo anno di lavoro apostolico in missione, lo sentivo – sì – ma neanche questo riuscì a scuotermi dalla mia mediocrità, la dovevo chiamare così. Avevo messo Dio e l’impianto della Chiesa lontano, senza riuscire a riprendermi tutto questo. Soffrivo di questa situazione e me ne rendevo conto. A partire da quella data cominciò in me un giro di boa, che però non è stato facile. Poco dopo è morto anche mio padre. Neppure questo mi cambiò. Soffrivo, sembrava quasi che Dio non fosse più influente nella mia vita… Adesso che, da formatore, ho il compito di seguire i confratelli nelle loro difficoltà spirituali, mi rendo conto di come si possa sentire la mancanza di Dio e non far nulla per trovarla. Si può soffrirne e non far nulla per venirne fuori. Sembra una contraddizione ed effettivamente lo è, eppure è una realtà.

Dal 1971 al 1989 sono anni segnati da quelli che lei definisce grande  successo personale, grandi soddisfazioni pastorali. È un periodo in cui,  come Generale, gira il mondo, incontra a più riprese personaggi di primo  piano tanto nella Chiesa quanto nella società. Ci tratteggia, se non è  banale, almeno a livello di battuta, Paolo VI?

 Paolo VI mi ha fatto una impressione enorme. Era il primo Papa che vedevo da vicino. Un uomo che ti guardava e ti penetrava l’anima. Dopo di lui, non ho conosciuto da vicino Papa Luciani, ma l’ho conosciuto prima. Mi ricordo che il suo segretario mi diceva – ero appena diventato Superiore Generale – che non dormiva perché aveva tre preti che lo facevano tribolare. Poi lui stesso mi ha chiesto se ci fossero dei miei missionari in crisi. Ho risposto che non tre, né quattro, ma ne avevo una serie e che nonostante quello dormivo ancora… Quando poi seppi che lui era morto, non fu una meraviglia per me, perché se non dormiva per tre preti, capirete lo spavento quando vide le richieste di dispensa che a quel tempo erano numerose…

Giovanni Paolo II l’ho incontrato diverse volte. Invitava a pranzo noi Superiori del Consiglio Generale per discutere alcuni problemi. Sono andato cinque volte a pranzo in quelle occasioni. Tutte le volte sono tornato a casa con lo stomaco imbarazzato, perché il pranzo si fermava lì… Trattavamo i problemi dell’America Latina, la Teologia della Liberazione… pazienza, ma questi problemi così cruciali lui li trattava a pranzo, prima del pranzo, durante il pranzo. Immaginate che piacere era mangiare da quelle parti!

Eppure Giovanni Paolo II era un uomo affascinante. Si può discutere di certe cose che diceva e di come le diceva, ma occorre una certa libertà di spirito nella Santa Chiesa per giudicare senza cattiveria anche un papa. Era un uomo che ti conquistava.

Una figura che non potrò dimenticare è stata Padre Arrupe, Gesuita. Quando divenni Generale avevo 36 anni. Lui mi disse che ne aveva 33 più di me, però era nato nel mio stesso giorno del mese di novembre. Diceva di considerarmi suo nipote, ed era di una gentilezza e di un amore che incantavano. Da lui ho imparato moltissimo. Pur essendo lontano da lui mille miglia, mi pare di aver preso da lui come si debba trattare la gente, come affrontare i problemi, senza arrabbiarsi.

A quei livelli, all’autorità, si portano problemi di una certa portata, seri… ma lui li trattava con una signorilità e capacità di accoglienza straordinarie. Mi sentivo infinitamente lontano da lui. Ma quando poi si ammalò negli anni ‘80-’81, andai a trovarlo e ricordo che s’illuminava quando parlava di vita religiosa, di Istituti, della Cina, del Giappone, delle missioni e anche se cominciava ad ingarbugliarsi nella lingua, ti faceva sentire che ti voleva bene. Credo che noi religiosi, se siamo dono di Dio, dovremmo essere capaci di far sentire questo amore di Dio a coloro che accostiamo.

Ma si può fare pastorale vocazionale mostrando certe facce da funerale che vediamo in giro?

Quando vado a predicare sia ai miei confratelli che agli altri, dico sempre che la migliore propaganda vocazionale la facciamo trasmettendo amore, non regole, non norme, ma amore, capacità di accoglienza, di sorridere. «Dio faccia splendere su di noi il suo volto» vuol dire «Dio ci sorrida». È quello che ci tiene in piedi. Noi dobbiamo essere così. Padre Arrupe mi ha insegnato questo.

Ho incontrato molte persone di poli opposti: dai più autoritari ai più democratici, dai più conservatori ai più liberali… Credo che il mondo è bello perché è vario. Prendiamolo come viene. A me ha fatto bene.

Fa pensare che una persona che ha questa ricchezza, questa possibilità di incontrare, di ascoltare e di condividere arrivi a dire: «Nello stesso tempo, quasi come un umiliante contrappeso a tanto splendore, cresceva dentro di me un vuoto fatto di insoddisfazione e di irritazione contro me stesso, di incapacità di affrontare i miei problemi personali, una tremenda verità che andava riempiendomi di angoscia e che tingeva in colori sempre più foschi il futuro».

È vero. Questo era – per così dire – il rovescio della medaglia della mia vita e parte da quella paura, la paura di Dio, il non sentire Dio come qualcuno che mi vuole bene, che mi accoglie, ma sentirlo come un giudice.

Ho detto che piano piano mi si poneva il problema di una vita che non era più improntata all’amore. Dall’altra parte Dio, con tutti questi incontri di persone, mi ha aiutato molto.

Tra queste persone, una è stata decisiva nella mia vita: Padre Bernhard Haring, il famoso moralista. Lo avevo conosciuto perché gli avevo chiesto di andare a tenere un corso di aggiornamento di teologia morale ai miei confratelli del Congo e del Burundi, poi gli avevo chiesto ancora di andare in Indonesia, in un’altra missione e in quell’occasione avevo trovato un uomo di una straordinaria libertà intellettuale, di una gratuità incredibile. Mi ha detto subito che la condizione era che io non gli dessi nulla di nulla, perché – diceva – aveva avuto il permesso dal suo Superiore Generale di utilizzare i “diritti d’autore” per queste cose. Mi aveva molto colpito questa gratuità che non c’è sempre nel nostro ambiente religioso. Avendo poi io tanti problemi di confratelli che non sapevo da che parte prendere, mi rivolgevo a lui per consigli e avevo scoperto un uomo di una lucidità mentale straordinaria e di grande esperienza e intuizione. Ricordo di un caso specifico in cui, dopo le prime battute, mi ha fermato dicendo che il resto della storia me lo poteva raccontare lui stesso, come di fatto fece, senza sbagliare.

Quando un giorno decisi di affrontare i miei problemi e di venir fuori da questo malessere interiore nel quale mi sentivo come stiracchiato, tra una fede che sentivo mia e che doveva essere mia e che, dall’altro lato, non potevo vivere come avrei voluto, pensai a lui e andai a trovarlo. Non potrò dimenticare quel 1 dicembre del 1983, uno di quei giorni freddissimi a Roma. Ricordo che il freddo era l’immagine perfetta dell’anima mia, una gelata! Andai da quest’uomo e trovai un’accoglienza, un ascolto tali e soprattutto alcune idee che mi diede della mia vita che ebbi l’impressione di aver incontrato Dio. Non che egli fosse Dio, ma di aver incontrato la Parola che Dio vuole dire a me. Mi disse di avere una grande fiducia, di vivere in spirito eucaristico, ossia di ringraziamento. Non mi disse altro, eppure quelle due indicazioni che mi guidano ancora oggi, sono quelle che mi hanno fatto riscoprire il volto del Dio dell’Esodo grande, buono nell’amore, compassionevole, lento all’ira, buono, che accoglie. A partire da quel giorno – lo dico con vergogna – ho l’impressione di aver capito non chi è Dio, ma di che Dio ho bisogno io. Vedo tante volte con grande sorpresa come questo Dio di cui ho bisogno io è comune a tanti, nel mondo religioso, ecclesiastico. Noi uomini e donne diventiamo facilmente rappresentanti di un Dio duro, fiscale, poliziotto, controllore, gendarme… un Super Io, non Dio. Questo ci guasta la vita.

Da quel punto la mia vita è cambiata e ringrazio Dio e il Padre Bernhard Haring che è stato il tramite di questa grazia. Ho scoperto quel che ha cambiato la mia vita, che non è affatto ancora santa! Ho già scritto nel mio testamento di non introdurre la Causa di beatificazione, perché si insabbierebbe subito e non intendo far spendere soldi per niente. Non sono santo, sono un miserabile come tanti altri, ma ho ritrovato la gioia della mia vita, che mi dà speranza. Cosa non da poco nell’oggi che è assetato di speranza sia nel mondo cristiano, sia nel mondo laicale. La nuova Evangelizzazione non si fa a tavolino; le strutture non hanno mai evangelizzato nessuno: chi evangelizza sono le persone che portano speranza, che sanno scuotere il cuore della gente. Questo è ciò di cui c’è bisogno oggi.

Ricordando quello che lei scrive: «Sono uno che vuol avere tutto sotto controllo, che non accetta di avere zone non sicure e impreviste, devo avere un piano di azione per ogni eventualità (se succede così ho questa soluzione, se invece così, quest’altra)».

Mi chiedo: con un carattere del genere e una formazione di questo tipo, come ha fatto a tornare in Burundi dove la situazione nel frattempo era cambiata, dove i missionari pagavano con il sangue la loro fede e dove tutto diventava diverso e insicuro?

Quello che Padre Bernhard Haring mi ha detto mi è servito molto: la mia fiducia è in Dio. È facile dirlo così, ma quando senti sparare, senti la mitraglia che batte… vi assicuro che si resta svegli e cominci a pensare come fare a salvarti dal pericolo per tutta la notte…

Io sono ancora così, uno che ha paura, che deve fare i calcoliper salvarsi. Quando mi metto a riflettere su quante volte Dio è intervenuto nella mia vita, togliendomi da situazioni impossibili (ogni volta che mi mettevo in macchina per andare in Seminario in Burundi non avevo la certezza di tornare a casa. Nonostante questo ci sono stato e ci ritorno, il prossimo 18 gennaio 2012). Questa fiducia cambia la vita. Ritengo che essere andato in Burundi tutto questo tempo abbia poi contribuito a farmi ritrovare ancora meglio l’immagine di Dio perché io che non avrei mai voluto insegnare nella mia vita (ho tre sorelle, tutte insegnanti) ho avuto nel 1996 la richiesta del Nunzio di andare a insegnare nel Seminario perché non c’erano più professori europei. Non volevo, i miei confratelli hanno spinto ed io ho obbedito. Non mi sono pentito, perché andando in Seminario ho dovuto rivedere le mie idee, ho dovuto, in tempi di embargo, insegnare di tutto (Cristologia, Mariologia, Teologia Fondamentale, Greco biblico, Diritto Canonico, soprattutto Ecclesiologia, Ecumenismo… Tutti noi missionari siamo tuttologi…). Per insegnare tutto questo ho dovuto io riprendere in mano la Teologia e mi sono reso conto come la Teologia sia davvero l’alimento della nostra vita e della nostra fede. Quando la fede c’è anche la carità si anima e quando ci sono fede e carità c’è la speranza e la vita rinasce. Io ritengo che questa sia una terza grazia della mia vita: i miei genitori mi hanno insegnato la fede; l’incontro con il Padre Bernhard Haring mi ha riportato alla verità di Dio; l’insegnamento mi ha riportato alla pienezza della fede insegnata e vissuta un po’ più da vicino. Oltretutto a quei tempi c’era anche difficoltà di essere schierati e a volte questo ti faceva sentire in mezzo ad una battaglia.

In Seminario non ci si poteva schierare perché si viveva sia con gli Hutu che con i Tutsi e per forza ci si doveva mettere dentro. Lì ho capito che la nostra fede e la nostra carità possono essere la forza che rinsalda l’unità di quel paese, l’unica possibilità di riconciliazione: la fede in un Dio che è Padre di tutti noi. Cosa che è difficilissima, ve lo assicuro, pur essendo l’unica forza che c’è. Sono convinto che questa sia una grazia che il Signore mi ha fatto e che mi porta ulteriormente a ringraziarlo e ad avere ancora più fiducia in lui. Per questo dico che è una grazia, perché ci ho guadagnato.

Rispondere all’amore di Dio si può, ma poi attorno a questa parola ci sono i significati più diversi. Forse proprio perché facciamo fatica a dar significato e può succedere che anche nella vita di un prete si inizi a far confusione. Mi riferisco a quel rapporto di amicizia che sta sotto questa forma di una sorta di dipendenza di innamoramento. Lei scrive: «Non ero mai passato per il tormento e lo spasimo, l’impetuosità e la profondità dell’esperienza amorosa. Comprendo che io non avevo ancora amato Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le mie forze come mi sono sentito amato io da quella donna».

 L’amicizia è una grandissima cosa e credo che senza amicizia la vita non vada da nessuna parte. Dirigo un corso di formazione permanente, all’interno del quale tratto il tema dell’amicizia. Intorno ai 40-50 anni questo tema va affrontato. È un tema cruciale per un celibe, per un prete, per un consacrato, perché la vita va vissuta nell’amore, non nel cercare di evitare ogni rischio e pericolo. Intendiamoci bene, non gettandosi nei pericoli, però non togliendo alla vita il sapore che è proprio della vita…

Ho teorizzato questa idea, poi un bel giorno mi sono sentito io stesso oggetto di un innamoramento. Non mi ero innamorato, assolutamente, però quando ti senti tu oggetto di un amore più grande e di un amore esagerato e che rischia di rendere sofferente una persona, passi attraverso una brutta stagione. Penso di non svelare segreti, credo che quasi tutti abbiate passato questo momento tumultuoso e difficile. Nello stesso tempo molto bello, ci rivela quanto noi dovremmo amare, ci fa capire quanto poco amiamo, perché non siamo trasportati dall’amore. Non è una passione che ci travolge, ma che ti fa veramente sentir vivo. Lo ritengo una grazia. I travagli dell’innamoramento è meglio risparmiarseli, se ci si riesce, però visto che normalmente ci capitano sono anche quei momenti nei quali ci rendiamo conto che l’amore è qualcosa di più di quella parola che diciamo tante volte senza pensarci e senza sapere cosa sia veramente. Credo che in questo serva molto l’esperienza, ed è una grazia che non è il caso di chiedere, ma che – se capita – è meglio prenderla e viverla bene, viverla al massimo.

Quanto è importante essere accompagnati, proprio per imparare a rispondere all’amore?

Chi vuole camminare da solo nel deserto è uno sciocco. La vita è un cammino nel deserto, dove si rischia grosso a non essere accompagnati. Quando rivedo la mia vita passata (noi missionari siamo più facilmente non accompagnati nella vita, per i frequenti cambi) dico che una delle ragioni per cui Dio è andato in eclissi è stata anche l’assenza di accompagnatore. Lo vedo anche nei miei confratelli della formazione permanente, constatando quanto poco venga preso in seria considerazione il problema dell’accompagnamento spirituale, fondamentale per noi preti, religiosi. Il non crederci ci porta alla mediocrità e alla dimenticanza di Dio.

Pregare è dare del tu a Dio. Cos’è per lei il silenzio?

Per me il silenzio è una gran fatica perché il mio carattere estroverso mi porterebbe sempre ad entrare in relazione con tutti. Eppure sento che il silenzio è l’ambito dentro il quale ritrovo me stesso perché ritrovo anche la mia radice, che è Dio, il fondamento della mia vita. Che altro fondamento posso avere, essendomi consacrato a lui, se non lui? Eppure, se non lo trovo, comincio a sbandare. Ecco quindi l’importanza del silenzio.

Per me oggi diventa sempre più vero che c’è bisogno di queste pause e di questi stacchi dal chiasso. Dall’altra parte però – può sembrare un po’ paradossale – sto riscoprendo con molta gioia il valore della preghiera comune, la preghiera vocale insieme agli altri, non necessariamente i miei confratelli, ma anche i semplici cristiani, la gente semplice con cui si celebra l’Eucaristia. Il pregare insieme crea un silenzio, crea uno spazio per Dio. Questo è molto bello.

Quando ero giovane ho sempre considerato i salmi una corvée impossibile, forse perché al tempo della mia formazione l’Antico Testamento non ci è stato insegnato molto, rispetto al Nuovo, ed ho imparato a conoscerlo da un professore tedesco che usava il latino… Era troppo difficile, non si capiva nulla e alla fine non abbiamo gustato l’Antico Testamento… Tra l’altro per i salmi ricordo di aver fatto un corso specifico, controvoglia.

Oggi i salmi sono diventati una delle preghiere più belle, forse perché sono diventato vecchio e li sento più vicini alla mia esperienza. Per fare silenzio, prendo un salmo, mi bastano pochi versetti sui quali poi mi fermo e rimango lì. Questo me l’ha insegnato il Padre Bernhard Haring, il quale mi diceva di non dire tutto il Breviario tanto per dirlo e per essere a posto con la coscienza, ma di fermarmi non appena sentivo che il salmo mi parlava al cuore per mettermi in sintonia. Questo metodo mi ha aiutato a gustarli.

Si diventa vecchi, però quel rispondere all’amore di Dio rimane l’unica vocazione. Allora andando verso la chiusura le chiederei qualche suggerimento per imparare ad invecchiare bene. Credo che tutti noi conosciamo anziani con cui è bello stare e anziani che invece sono rancorosi, rimpiangono occasioni perdute e sono difficili anche da sopportare.

 Nel corso di formazione permanente tengo non una settimana, ma due giorni su come invecchiare e i miei confratelli anche vecchi, anziani, mi guardano strabiliati, i giovani ridono sotto i baffi. Man mano che entriamo nel discorso ci rendiamo conto che questo è un problema serio della nostra vita. Bisogna diventare vecchi mantenendo e accrescendo le capacità di quell’amore che Dio ci ha dato in giovinezza, quell’amore per il quale noi siamo nati, che ci ha mantenuto nel corso del cammino, che abbiamo imparato dalle varie esperienze della vita e che deve crescere a mano a mano che diventiamo anziani.

Se invece succede – come spesso avviene – che invece che crescere nell’amore cresciamo nel rancore, nell’amarezza, nella tristezza, nella lamentosità… nessuno ci viene più vicino, ci amareggiamo la vita, non riusciamo più a legare con nessuno, perché se non hai amore da offrire, non leghi con nessuno. Per invecchiare bene, bisogna cominciare presto a mantenere vivo l’amore del nostro cuore, che non si blocchi, a tenerlo flessibile, duttile… ci vuole duttilità mentale, non dogmatismo… (la vita non è fatta solo di bianco o di nero, ma di tanto grigio…). Occorre duttilità sentimentale, affettiva, emotiva, occorre saperla mantenere e coltivare. Poi penso che la sintesi di tutti questi tentativi sia mantenere vivo il rapporto con Dio, ma vivo nel senso di un cuore che ama. Amo molto l’immagine del Curato d’Ars che stava davanti al Santissimo e non diceva niente.

In un mattino freddo e nebbioso, in Burundi, andando in una cappella lontana, ho trovato un vecchio avvolto in una coperta, seduto davanti a casa sua. I primi raggi del sole lo toccavano direttamente. Domandai cosa stesse facendo e mi rispose che si stava scaldando le ossa. Credo che tutti abbiamo un bisogno enorme di scaldarci il cuore, non le ossa, di scaldarci il cuore restando davanti al sole che è Gesù Cristo, stando davanti al Santissimo, passare del tempo lì, senza dire nulla, soltanto stando lì con lui. Il Signore ci scalda… ci accorgeremo dopo di essere stati scaldati, dopo essere stati al freddo…

Questa operazione, questa specie di fotosintesi clorofilliana che facciamo alla luce del Signore che è il sole della nostra vita, ci trasforma e ci tiene giovani anche se gli anni passano e possiamo essere sempre capaci di amare, perché l’amore è la misura della nostra età. Abbiamo l’età proporzionale a quanto amore siamo capaci di donare. Se amiamo molto siamo ancora giovani anche se abbiamo 90 anni. Se amiamo poco siamo vecchi anche a 20 anni, siamo vecchi prima di invecchiare e sarebbe una cosa gravissima! Io credo che la nostra vocazione debba essere una scuola di amore. Se non è questo non serve a nulla.

Come pensa, come guarda alla morte, alla sua morte?

Lasciami tirare un respiro forte.

Ci penso, certo. Quando ero giovane e vedevo un settantenne, dicevo che non si sarebbe dovuto lamentare se gli fosse capitato di morire. Adesso che ho raggiunto io i 70 non lo dico più, però ci penso, anche perché la morte l’ho vista da vicino un paio di volte, nel senso che ho visto dei morti – uccisi – lungo la strada. Dire che non mi fa paura è una bugia. Ho paura e non ho paura di dirlo, però nello stesso tempo sono convinto che proprio come conclusione del cammino spirituale che sto facendo, se da una parte ho paura, dall’altra desidero morire perché quel giorno finalmente vedrò il volto di mio Padre. Ora sono come un bambino nel ventre di sua madre: non la vedo, mi fa vivere, ma non vedo il volto di mio padre o di mia madre. Si ha pure il diritto di vederlo! Aspetto quel giorno perché allora lo vedrò. Se da una parte lo aspetto con paura, dall’altra parte lo aspetto con grande speranza.

Non so se mi sto preparando. Una volta si raccomandava di preparare una buona morte. Non so se ricordate il terrorismo spirituale intorno alla preparazione alla buona morte. Non è proprio il caso, ma pensare alla morte come a un inizio, credo sia giusto. Eliot, il grande poeta inglese, diceva che la tua fine è il tuo principio. La morte è una fine e un inizio. Allora, se è un inizio, aspettiamo con speranza!

Lascio ancora parlare il suo cuore. Mi pare ora di capire perché Dio ha scelto la parabola dell’amore umano per dirmi la qualità trascendente del suo amore. Davvero Dio ci vuol bene, mi vuol bene e cosa mi resta da fare ora se non cercare di crescere nell’amore del Signore?  Questa non è una domanda, è un grazie a tutti!