N.04
Luglio/Agosto 2012
Studi /

Amore per la salvezza degli uomini e amore alla Chiesa nel discernimento vocazionale.

  1. La profonda passione per la Chiesa di Caterina da Siena

Avvio questa riflessione prendendo spunto dalla citazione della Lettera 282 di Santa Caterina che esprime il suo amore per la Chiesa: «Tu non puoi avere desiderio della salute delle anime, che tu non l’abbia della santa Chiesa» (Lettera 282). La lettera è indirizzata a Niccolò da Osimo, segretario e uomo di fiducia di Papa Gregorio XI ad Avignone. Niccolò è citato, tra l’altro, nella Lettera 185 di Caterina a Papa Gregorio – che, come è noto, riportò la sede pontificia da Avignone a Roma anche per le insistenze e l’opera della Santa – dove ricorre tra l’altro la famosa espressione «dolce Cristo in terra» (cf anche Lettera 196 allo stesso Gregorio XI), nella quale Caterina tratta dei mali arrecati alla Chiesa da cattivi prelati – avarizia, superbia, cura di interessi materiali, lussuria, usura, abuso dei sacramenti e così via – e dà come suo solito una tirata d’orecchie anche al Papa.

Nell’appassionata lettera dice infatti Gregorio che la corruzione e la tiepidezza dei prelati «è la cagione che li sudditi sono tutti corrotti di immondizia e di iniquità» e lo esorta a donarsi completamente per Dio e la salvezza degli uomini imitando il suo predecessore Gregorio Magno: «Voglio dunque che siate quello vero e buono pastore che se aveste cento migliaia di vite, vi disponiate tutte a darle per onore di Dio e per salute delle creature. O Babbo mio, dolce Cristo in terra, seguitate quello dolce Gregorio; perciocché così sarà possibile a voi come a lui; però che egli non fu d’altra carne che voi; e quello Dio è ora, che era allora: non ci manca se non virtù, e fame della salute dell’anime». Al termine della lettera Caterina fa riferimento ad alcune vicende, tra cui la creazione di alcuni Cardinali da parte del Papa, per i quali ella auspica che siano “uomini virtuosi”, perché «se si farà il contrario, sarà grande vituperio di Dio e guastamento della santa Chiesa». Suggerisce poi al Papa, prima di nominare un nuovo Maestro dell’Ordine domenicano, di «ragionare con messer Niccola da Osimo».

A Niccola o Niccolò da Osimo Caterina indirizza due lettere, la 181 e la 282. Nella prima, la Santa esorta lungamente Niccolò ad essere fermo nell’amore di Dio e nella passione per la salvezza delle anime, che collega al rinnovamento della Chiesa: «Siatemi una pietra, ferma, fondata nel corpo della santa Chiesa; cercando sempre l’onore di Dio e la esaltazione e rinnovazione della santa Chiesa». E al termine della lettera riprende la questione della nomina del Maestro dei domenicani, raccomandando a Niccolò di pregare «Cristo in terra che procuri all’Ordine d’uno buono Vicario», e spingendosi a suggerire la candidatura di maestro Stefano, «che, se noi l’avessimo, che per la grazia di Dio e per lui l’Ordine si racconcerebbe». È la profonda passione per la Chiesa che spinge Caterina a interessarsi persino per le nomine di pertinenza papale…

La Lettera 282, dalla quale è tratta la citazione di partenza, si apre con una vera e propria perorazione per una dedizione incondizionata alla Chiesa: «Io Catarina, serva e schiava de’ servi di Gesù Cristo, scrivo a voi nel prezioso sangue suo; con desiderio di vedervi colonna ferma, che non si muova mai, se non in Dio; non schivando né refutando il labore e la fadiga che durante nel corpo mistico della santa Chiesa, sposa dolce di Cristo, né per ingratitudine né per ignoranzia che trovaste in coloro che si pascono in questo giardino, né per tedio che ci venisse di vedere le cose della Chiesa andare con poco ordine». Infatti, continua Caterina, spesso chi non vede i risultati per i quali si era affaticato si scoraggia e si ritrae, tornando semplicemente alla propria quiete. Vale invece la pena fare fatica per la sposa di Cristo: «Per qualunque modo e di qualunque cosa noi ci affadighiamo per lei, è di tanto merito ed è tanto piacevole a Dio, che lo intelletto nostro non è sufficiente a vederlo né a poterlo imaginare». Ed è poi all’interno di un passaggio autobiografico, nel quale Caterina esprime tutto il suo amore per la Chiesa, che riporta queste parole come dette dal Salvatore alla sua serva: «E sappi che tu non puoi avere desiderio della salute dell’anime, che tu non l’abbi della santa Chiesa; perch’ella è il corpo universale di tutte le creature che partecipano il lume della santa fede, e non possono avere vita, se non sono obedienti alla sposa mia. E però tu debbi desiderare di vedere li prossimi cristiani e gl’infedeli e ogni creatura che ha in sé ragione, che si paschino in questo giardino, sotto il giogo della santa obedienzia, vestiti del lume della fede viva». Il Salvatore continua: «Ora ti dico, e voglio, che tu cresca fame e desiderio, e dispongati di ponere la vita, se bisogna, in particulare nel corpo mistico della santa Chiesa, per reformazione della sposa mia. Perocché, essendo reformata, séguita l’utilità di tutto quanto il mondo». Forte di questa esortazione rivolta alla sua serva dal Salvatore in favore della Chiesa, Caterina esorta a sua volta Niccolò:

«Voglio adunque, e vi invito, alle fadighe, per lei, come sempre avete fatto»; in modo particolare Caterina chiede a Niccolò di pregare «il Santo Padre, che ogni remedio che si può pigliare (…) nella reformazione della santa Chiesa e nella pace di tanta guerra quanta si vede in dannazione di tante anime, che egli il pigli con ogni sollecitudine e non con negligenzia; perocché d’ogni negligenzia e poca sollicitudine Dio il riprenderà durissimamente, e richiederargli l’anime che per questo periscono».

La complessa e intricata tessitura di questa lettera ha come motivo conduttore il donarsi, anzi, l’affaticarsi per la Chiesa – il sostantivo “fadiga” e il verbo “affadigarsi” vi ricorrono ben quindici volte – ossia l’impegno senza risparmio in favore della “reformazione” della Chiesa, come condizione per la “salute delle anime”. Ogni ritardo e negligenza in questo impegno, da parte di Caterina, come di Niccolò o del Papa, si traduce in un danno alla salvezza delle anime. Vi sarebbe materia per riflettere in diverse direzioni: il tema della “riforma della Chiesa”, il ruolo del papato, l’impegno richiesto ad ogni fedele per la santità della Chiesa, l’amore per la Chiesa stessa, la salvezza e la perdizione, l’adesione degli infedeli a Cristo, e così via.

Cerchiamo ora di concentrarci sull’argomento di questa relazione, a partire dal passo di Santa Caterina: il rapporto tra la passione per la salvezza delle anime e la passione per la Chiesa. Rendo il termine cateriniano “desiderio” con “passione”, perché nelle sue opere il termine “desiderio”, quando è riferito ai sacerdoti, indica l’affetto, l’amore, la passione appunto con cui devono essere uniti a Dio. È sufficiente una sola citazione: nel Dialogo, ad un certo punto, Dio dice che i sacerdoti «hanno desiderio infinito, cioè sono uniti per affetto d’amore in me» (III, 25). “Desiderio” o “passione” che ovviamente non ha molto a che vedere con l’accento di istintività e spontaneità attribuito oggi a questi termini; è piuttosto il fuoco dell’amore, capace di riempire tutta la vita, è la capacità di donarsi senza risparmio.

 

  1. Come intendere oggi l’espressione “salvezza delle anime”?

L’espressione “salvezza delle anime” oggi non si usa quasi più, per due ragioni, motivando le quali emergerà anche la relazione tra i due “desideri” di cui parla Santa Caterina, il desiderio della salvezza delle anime e il desiderio della Chiesa.

La prima ragione è il guadagno di un’antropologia unitaria maggiormente conforme alla Scrittura, rispetto ad un’antropologia dualista che – pur avendo trovato parecchio spazio nella teologia e nella spiritualità cristiane – era fortemente debitrice del pensiero platonico. Ha ricordato Benedetto XVI nell’enciclica Deus Caritas est: «L’uomo diventa veramente se stesso, quando corpo e anima si ritrovano in intima unità (…). Se l’uomo ambisce di essere solamente spirito e vuol rifiutare la carne come una eredità soltanto animalesca, allora spirito e corpo perdono la loro dignità. E se, d’altra parte, egli rinnega lo spirito e quindi considera la materia, il corpo, come realtà esclusiva, perde ugualmente la sua grandezza (…). Solo quando ambedue si fondono veramente in unità, l’uomo diventa pienamente se stesso (…). Oggi non di rado si rimprovera al cristianesimo del passato di esser stato avversario della corporeità; di fatto, tendenze in questo senso ci sono sempre state. Ma il modo di esaltare il corpo, a cui noi oggi assistiamo, è ingannevole (…). L’apparente esaltazione del corpo può ben presto convertirsi in odio verso la corporeità. La fede cristiana, al contrario, ha considerato l’uomo sempre come un essere uni-duale, nel quale spirito e materia si compenetrano a vicenda sperimentando proprio così ambedue una nuova nobiltà»1.

Il pensiero di Papa Benedetto si può riassumere in questo modo: né lo spiritualismo né il materialismo rendono davvero giustizia alla natura dell’uomo, che è uni-duale, è una persona che ha due dimensioni, spirituale e corporea. Per questo oggi si preferisce parlare di “salvezza dell’uomo” piuttosto che di sola “salvezza dell’anima”.

Dobbiamo soprattutto al grande teologo H. de Lubac la critica all’individualismo e allo spiritualismo sottesi all’espressione “salus animarum”, che occulta – così de Lubac – il carattere integrale e comunitario della salvezza. Per H. de Lubac, che ne parla soprattutto nel capitolo sulla “vita eterna” di Cattolicismo (1937), l’avere concentrato la salvezza sulla sola sorte ultraterrena dell’anima – prospettiva accentuatasi con la Benedictus Deus di papa Benedetto XII, che nel 1334 stabiliva il premio o la condanna dell’anima separata subito (mox) dopo la morte – ha finito con il danneggiare l’intera teologia e fede cristiana, mettendo in sordina la dimensione corporea e comunitaria della salvezza stessa. De Lubac, come è noto, arriva a sostenere la tesi della “incompletezza” della salvezza dell’anima beata fino a quando non sarà ricongiunta con il proprio corpo e fino a quando l’intero corpo dei beati non sarà salvato. Oggi dunque la “salvezza” è riferita in genere non alla sola anima, ma a tutta la persona, anima e corpo; l’escatologia cristiana, sulla base della risurrezione di Gesù, ha come termine ultimo non l’immortalità dell’anima, ma la risurrezione dei corpi.

L’altra ragione del declino subìto dall’espressione “salvezza delle anime” è da ricercare nel progresso della teologia della missione e del dialogo interreligioso. Oggi nessuno porta avanti un’interpretazione rigorista dell’assioma “extra ecclesiam nulla salus”, per la quale chiunque si colloca fuori del corpo ecclesiale è destinato alla condanna, come diceva ad es. Fulgenzio di Ruspe (+ 533). E d’altra parte nessuno ritiene una garanzia assoluta di salvezza l’appartenenza alla Chiesa attraverso il battesimo; come afferma il Concilio Vaticano II: «Si ricordino bene tutti i figli della Chiesa che la loro esimia condizione non va ascritta ai loro meriti, ma a una speciale grazia di Cristo; se non vi corrispondono col pensiero, con le parole e con le opere, non solo non si salveranno, ma anzi saranno più severamente giudicati» (LG 14). La “salvezza delle anime”, nella coscienza cristiana attuale, è affidata completamente al Signore, che conosce i cuori e le coscienze ed è il solo in grado di giudicare; certamente terrà conto del grado di consapevolezza che ogni uomo ha avuto verso la verità, delle vie che ha seguito con retta coscienza, dell’amore che ha saputo esprimere a qualunque cultura o religione abbia aderito, e così via.

Quando si impose, a livello teologico, la consapevolezza che ci si può “salvare” dentro ad ogni religione, sembrò entrare in crisi proprio la “ragion d’essere” della missione: perché la missione, se la salvezza può essere conseguita anche da chi, senza sua colpa, ignora il Vangelo? Si cominciò allora ad abbandonare, già negli anni Trenta del XX secolo, l’idea che lo scopo dell’opera missionaria fosse quello di salvare le anime, per insistere sulla necessità della “implantatio Ecclesiae” come fine della missione: è questa la linea di Charles e della scuola di Lovanio. La missione venne in un certo senso sganciata dall’escatologia ed agganciata all’ecclesiologia e, più precisamente, alla cattolicità della Chiesa: fu ancora de Lubac uno dei primi che, ragionando sulla motivazione della “missio ad gentes” e ritenendo troppo angusta la prospettiva della “salvezza dell’anima”, portò l’attenzione sulla cattolicità della Chiesa. Anticipando quasi alla lettera il Vaticano II, de Lubac affermava nel 1943: «La Chiesa è per essenza missionaria poiché ciò che noi chiamiamo le sue missioni non sono altro che il primo mezzo mediante il quale porta a compimento la sua missione»2.

È però l’enciclica Redemptoris Missio di Giovanni Paolo II a saldare i due aspetti di questa vicenda, ossia la cattolicità-missionarietà della Chiesa e la salvezza dell’uomo. L’enciclica considera infatti la “salvezza” non una realtà discontinua rispetto a questa vita terrena, ma – sulla linea di alcune suggestioni paoline e giovannee – come una “vita piena” che comincia già ora in colui che crede in Cristo e lo conosce. In tal modo l’enciclica libera la nozione di “salvezza” da una riduzione puramente “ultraterrena”, per adottare un’idea di salvezza che inizia a prendere consistenza già nella vita terrena, pur compiendosi dopo la morte. E questa prospettiva – la “salvezza integrale” – è in grado di motivare la missione “ad gentes” anche ammettendo, come è doveroso, che si possa raggiungere la salvezza ultraterrena aderendo a qualsiasi religione o persino a nessuna.

Sebbene sia vero che a determinate condizioni ci si possa salvare anche fuori dell’appartenenza alla Chiesa visibile e a Cristo, scrive Giovanni Paolo II, la Chiesa deve evangelizzare dovunque e chiunque, perché quanto più tra gli uomini nascono legami di “vita nuova” derivanti dal Vangelo – e dunque quanto più, di riflesso, nasce la Chiesa – tanto più l’uomo è liberato pienamente e trova il senso autentico della vita già ora: l’accoglienza della “buona notizia”, infatti, lo affranca dal peccato e dalle paure e si riflette anche “socialmente”, sia nella vita ecclesiale che nel tessuto della vita civile, in una convivenza fondata su valori pienamente liberanti per l’uomo.

In quest’ottica il Papa può dire, senza trionfalismi e nella consapevolezza dei tanti errori commessi dai cristiani, che «la Chiesa ha sempre saputo suscitare, nelle popolazioni che ha evangelizzato, la spinta verso il progresso»3; e che «col messaggio evangelico la Chiesa offre una forza liberante e fautrice di sviluppo, proprio perché porta alla conversione del cuore e della mentalità, fa riconoscere la dignità di ciascuna persona, dispone alla solidarietà, all’impegno, al servizio dei fratelli, inserisce l’uomo nel progetto di Dio, che è la costruzione del Regno di pace, di giustizia a partire già da questa vita. È la prospettiva biblica dei “cieli nuovi e terra nuova” (cf Is 65,17; 2 Pt 3,13; Ap 21,1), la quale ha inserito nella storia lo stimolo e la meta per l’avanzamento dell’umanità»4.

Oggi anche studiosi lontani dalla fede cristiana riconoscono che – al di là delle debolezze e degli errori dei cristiani – l’annuncio del Vangelo influisce sulle varie culture, immettendo in esse valori positivi che, gradualmente assorbiti, cambiano mentalità, usi, leggi. Alcune verifiche concrete potrebbero essere condotte, ad esempio, sui temi della concezione della persona, della teoria e prassi della schiavitù e della uguale dignità della donna; temi che registrano sviluppi peculiari nelle culture che – almeno per un periodo piuttosto lungo e con una profondità tale da creare cultura, istituzioni e leggi – hanno incontrato il Vangelo. La stessa Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo (1948), con l’antropologia che vi è alla base, mostra con evidenza le sue radici cristiane.

Se dunque la Chiesa continua ad essere missionaria anche verso “le genti” che ancora non conoscono Cristo, non è perché sia in pericolo la salvezza ultraterrena delle loro anime, ma perché è convinta che l’adesione a Cristo nella Chiesa è un elemento “umanizzante” della vita terrena, la “salva” dal non senso, dalla paura e dall’egoismo.

 

  1. Affaticarsi per la Chiesa

A questo punto risulta chiaro il rapporto tra passione per la Chiesa e passione per la salvezza dell’uomo. All’epoca di Santa Caterina la relazione, come abbiamo percepito anche nella Lettera 282 a Niccolò da Osimo, si poneva in questi termini (detto con linguaggio più moderno): colui che desidera la salvezza delle anime deve impegnarsi e affaticarsi per la riforma della Chiesa, in modo che – vinta la corruzione – la sposa di Cristo diventi giardino attraente anche per gli infedeli, i quali, aderendo ad essa, possono salvarsi. Questa prospettiva era in grado di dare impulso a tutte le scelte vocazionali e specialmente a quella del ministero sacerdotale, più direttamente impegnata nella “salvezza delle anime” attraverso la predicazione e l’amministrazione dei sacramenti.

Una forte spinta a diventare prete proveniva dal legame stretto fra gli atti del ministero sacerdotale e la possibilità per gli uomini di salvarsi. Osserva mons. Luciano Monari nella sua Lettera ai preti (2006): «Per secoli il prete ha visto il suo servizio come indispensabile alla salvezza eterna delle persone: il Battesimo veniva amministrato al più presto, subito dopo la nascita, perché dalla sua amministrazione dipendeva la salvezza del bambino. La Confessione e l’Estrema unzione permettevano di essere e ritornare “in grazia di Dio”, cioè nella condizione precisa di salvati. Il Vangelo che veniva annunciato apriva l’unica salvezza possibile all’uomo. Si pensi allo zelo straordinario di molti parroci per riuscire ad amministrare gli ultimi Sacramenti a un morente; o ai sacrifici incredibili fatti dai missionari per riuscire ad annunciare il Vangelo ai pagani. Tutto questo dava al prete la percezione che gli uomini non potessero vivere senza il suo ministero, non potessero ottenere la salvezza; e giustificava, di conseguenza, i numerosi sacrifici annessi al ministero». Oggi invece – continua Monari – avendo guadagnato l’idea che la strada della salvezza eterna è aperta a tutti, «il ministero del prete rischia di apparire un servizio opzionale: bello, interessante e forse gratificante in alcune sue espressioni, ma non tale da decidere della salvezza eterna delle persone. Ora, un ministero indispensabile giustifica anche rinunce costose; un ministero opzionale fa più fatica a supportare un tale impegno, un tale sacrificio».

Sulla base di queste riflessioni, mons. Monari prospetta un “ricollocamento” del ministero presbiterale, in analogia al “ricollocamento” della teologia delle missioni dalla prospettiva della “salus animarum” a quella della “implantatio ecclesiae”. Conclude il vescovo di Brescia: «Per il ministero presbiterale bisognerà probabilmente mettere l’accento sulla “edificazione della Chiesa”. Non si tratta solo di un mutamento verbale: si tratta di assumere una visione diversa del ministero organizzando attorno a un nuovo centro tutte le diverse dimensioni della pastorale. Sono convinto che la “edificazione della Chiesa” sia un obiettivo capace di sostenere robustamente il senso intero di una vita, ma ad alcune condizioni. La prima e fondamentale è riuscire a percepire la Chiesa per quello che essa realmente è, cioè il corpo di Cristo. Se la Chiesa è percepita soprattutto come istituzione, il servizio ecclesiale non vale tanti sacrifici. Tutti siamo d’accordo che la Chiesa dev’essere istituzione; ma non si rinuncia a fare una famiglia propria per un’istituzione, per quanto bella. Se invece la Chiesa viene riconosciuta come la presenza viva di Cristo, il suo “corpo”, se il “mistero di Cristo” è ciò che dà senso al mondo e alla storia, se c’è nel cuore un amore sincero e vivo a Cristo, allora l’importanza del ministero presbiterale è percepita con chiarezza e con gioia».

Quanto vale per la vocazione al sacerdozio ministeriale vale anche per le altre vocazioni, perché ciascuna strada nella Chiesa, sebbene in misura e con modalità differenti, risponde al desiderio di edificare la Chiesa e con ciò di “umanizzare” l’esistenza umana, cioè – nella prospettiva della “salvezza integrale” – di contribuire alla salvezza degli uomini. È decisivo dunque l’affetto per la Chiesa, ossia in concreto il “sentirla” come la propria famiglia, nella quale vale la pena di impegnarsi, fino anche a immettere tutte le energie disponibili nella sua edificazione, in vista del regno di Dio. Un capitolo importante della pastorale vocazionale è dunque l’esperienza di una Chiesa come “famiglia”; e un capitolo importante del discernimento vocazionale in vista del ministero presbiterale è la dedizione alla Chiesa e, concretamente, alla Chiesa locale nella quale il futuro presbitero sceglie di donare le proprie energie. Qualche parola su entrambi gli aspetti.

 

  1. Una Chiesa come “famiglia”

Un lunedì mattina d’inverno del 1982 tornavo in treno al Seminario Regionale di Bologna dalla mia diocesi di Forlì, come tutti i lunedì. Ero in quarta teologia e, come ogni bravo seminarista, portavo con me un libro per utilizzare bene l’oretta di viaggio. Di fronte a me sedevano due signori, uno sui sessanta e l’altro più giovane di almeno vent’anni. Il sessantenne era piuttosto loquace e parlava col suo compagno di viaggio di tutto: calcio, politica, cinema, figli, tasse… Ad un certo punto iniziò a parlare della Chiesa, anzi, sarebbe proprio il caso di dire “sparlare”. Ce n’era per tutti: il papa che viaggia troppo e spende soldi, i vescovi retrogradi e invadenti, le suore e i preti che predicano bene e razzolano male, i cristiani che si battono il petto a Messa e poi fuori sono peggio degli altri… fino alla rivelazione che il Vaticano mantiene basi missilistiche a Sigonella.

Non mi piace inserirmi quando non richiesto nei discorsi degli altri, ma non riuscii a trattenere un sobbalzo e sentii il bisogno di dirgli che probabilmente si stava confondendo con gli Stati Uniti. Buttò l’occhio sulla copertina del mio libro forse per inquadrare chi potessi essere – ma non fu aiutato molto, perché si trattava del romanzo di Silone Il segreto di Luca – e mi lanciò un’occhiata interrogativa. Saputa la mia identità non fece affatto marcia indietro: anzi, ribadì punto per punto le sue accuse, e ne aggiunse altre pescate qua e là dalla storia: le streghe, le crociate, l’inquisizione, Galileo… qui lo interruppi, perché lo faceva morire al rogo scambiandolo evidentemente con Giordano Bruno; ma riprese martellante: il potere temporale, Alessandro VI papa guerriero… lo interruppi di nuovo, perché stava attribuendo a papa Borgia alcune gesta – effettivamente belliche – compiute però non da lui ma da Giulio II. E così via.

La discussione finì alla stazione di Bologna, dove ci salutammo e ci facemmo gli auguri: io gli dissi che non fosse così prevenuto verso la Chiesa e ne studiasse meglio la storia e l’opera, e lui mi augurò di cambiare strada: se proprio volevo rimanere “attaccato alla Chiesa”, disse, c’erano tanti modi di essere cristiano senza farmi prete.

Ho poi ripensato tante volte a quell’incontro. Anzi, mi viene in mente tutte le volte che sento criticare la Chiesa. Non che le critiche siano sempre sfasate e ingiuste: tante volte i cristiani – anche quelli che sono più rappresentativi nella Chiesa e rivestono ruoli di responsabilità – sono opachi al Vangelo e, anziché testimoniarlo, lo contraddicono. Giovanni Paolo II, con le sue richieste di perdono e soprattutto la celebrazione penitenziale del 12 marzo 2000, ha coraggiosamente riconosciuto tanti errori. Ed è rimasta famosa l’espressione forte che l’allora card. Ratzinger – di lì a poche settimane Benedetto XVI – utilizzò nel testo della “Via Crucis” del venerdì santo 2005, quando parlò della “sporcizia” che c’è anche nella Chiesa. Il peccato dunque abita anche la Chiesa e coinvolge tutte le sue componenti. Del resto, se voglio farmi un’idea delle incoerenze presenti in essa, è sufficiente che moltiplichi per qualche centinaio di milioni i miei errori, i peccati e le debolezze che sperimento ogni giorno.

Però il punto non è questo. Il punto è lo “sguardo”, l’ottica dalla quale osservo la Chiesa. La guardo e la sperimento come la mia famiglia, oppure come un’entità estranea? Se guardo la Chiesa “dal di dentro”, sentendomi parte di questa famiglia, allora non mi manderanno in crisi né le crociate né l’inquisizione né Alessandro VI o Giulio II: mi dispiacerà, certo, e mi darò da fare perché certi errori non si ripetano, ma non sarà compromessa la mia adesione alla Chiesa, che è fatta di uomini e come tale piena di difetti, ma è guidata ed amata da Dio e come tale è la sua presenza nel mondo. Insomma, se vivo la Chiesa come la mia famiglia, vedrò certo i suoi difetti – anzi, stando in casa li vedrò meglio! – ma, anziché compiacermene, mi rimboccherò le maniche e cercherò di contrastarli, perché sono anch’io sulla stessa barca. Se invece la guardo come una realtà estranea, che mi fa comodo denigrare poiché sostiene idee e prassi contrarie alle mie, allora non basteranno migliaia di santi come Francesco d‘Assisi o Madre Teresa di Calcutta, perché troverò sempre motivi per criticare, magari contrapponendo una Chiesa dei “semplici” ad una dei “potenti”: le “gerarchie vaticane”, come oggi si usa dire… anche quando ci si riferisce ai vescovi italiani.

Ben vengano, dunque, i dibattiti: troppe volte chi attacca la Chiesa lo fa sulla base dei titoli di giornale, che tendono a colpire più che informare; ben venga – anzi è un dovere – l’approfondimento dei fatti, delle argomentazioni e dei documenti. Ma sarà decisivo lo sguardo: la Chiesa è la mia famiglia o un’entità estranea?

Non è automatico che il cristiano sperimenti la Chiesa come “famiglia”. Se ci chiedessimo a quale modello ideale si ispirano le nostre comunità cristiane, parrocchie e diocesi, che cosa potremmo rispondere? Le comunità cristiane dei primi secoli, con tutti i loro difetti non certo minori dei nostri, si ispiravano al modello della famiglia, tanto da arrivare a definire la Chiesa “famiglia di Dio” (1Tm 3,15). Questa visione del resto rispecchiava l’esperienza, perché nei primi tre secoli i cristiani si incontravano proprio nelle case a prepararsi al battesimo, a ricevere i sacramenti e celebrare l’Eucaristia, a pregare e confrontarsi sulla Parola di Dio, a fraternizzare. L’esperienza cristiana, in questa dimensione “domestica”, era fatta di relazioni dirette e “calde”.

 

  1. E per le nostre comunità?

A volte si ha l’impressione che il loro modello ideale non sia la famiglia, ma l’azienda. Un’azienda spesso in passivo dal punto di vista economico e fallimentare dalla semplice ottica dei numeri e dell’efficienza, ma comunque un’azienda: dove conta più organizzare delle cose che incontrare delle persone. La logica dell’azienda è diversa da quella della famiglia: nell’azienda contano le prestazioni, nella famiglia le relazioni; nell’azienda chi non produce ancora o non produce più non trova spazio, mentre nella famiglia il bambino e l’anziano meritano un’attenzione ancora maggiore; nell’azienda contano i numeri, nella famiglia le persone; l’azienda si muove sull’efficienza e la produzione, la famiglia sull’efficacia e sugli affetti. Un’azienda che volesse muoversi secondo la logica della famiglia e che, ad esempio, valorizzasse le relazioni al punto da trascurare la produzione, fallirebbe in poco tempo. E allo stesso modo una famiglia che mettesse al centro l’efficienza e il profitto trascurando le relazioni si ridurrebbe ad una fredda convivenza.

 

  1. Far “desiderare” la Chiesa

Le persone non sono attratte da una Chiesa-azienda, ma potrebbero esserlo da una Chiesa-famiglia: non è la smania delle iniziative, ma è la cura delle relazioni che può sfondare il muro dell’indifferenza e far “desiderare” la Chiesa, per dirla con Santa Caterina. La quantità delle iniziative e delle opere è importante, anzi essenziale, ma deve essere sempre proporzionata alla qualità delle relazioni ed esserne come un’espressione; altrimenti il rischio dell’attivismo e della demotivazione, il pericolo di “bruciarsi”, è molto concreto.

Il modello su cui si è plasmata la Chiesa, il modello voluto da Gesù, è quello comunitario della famiglia: lui viveva con i suoi discepoli e faceva famiglia con loro. Questo non significa che non debbano trovare posto nelle nostre comunità anche i numeri, i bilanci e l’efficienza, ma non possono occupare il posto centrale. Come una famiglia non è anarchica e deve darsi una certa organizzazione, così anche la comunità cristiana: purché l’organizzazione sia al servizio delle relazioni e non viceversa. Perché la gente non cerca solamente delle prestazioni e dei servizi, ma cerca soprattutto accoglienza e comprensione. O meglio, anche quando cerca solo dei servizi burocratici – i famosi certificati – se trova insieme a quelli un sorriso e una stretta di mano, forse comincia a disporsi diversamente verso la comunità cristiana. E forse i ragazzi e i giovani si sentono “a casa” e più facilmente avvertono di essere “dentro” a questa famiglia, avvertono che è la loro famiglia e che come tale va amata.

È decisivo, per la maturazione di tutte le vocazioni, che nelle comunità cristiane maturi il senso dell’appartenenza ad una grande “famiglia”. Una famiglia aperta, quasi una casa-famiglia. Senza un senso vivo di appartenenza alla Chiesa matura al massimo qualche gesto di generosità e di volontariato, come si fa anche per altri enti benèfici; all’interno del senso di appartenenza alla Chiesa matura invece il desiderio di spendersi dentro la Chiesa, a qualunque vocazione il Signore chiami. Ma la vocazione votata per natura alla “edificazione della Chiesa” è il ministero sacerdotale, sul quale vale ora la pena di puntare la lente.

 

  1. Dedizione alla Chiesa

Prendo spunto da un quasi dimenticato testo tridentino dei decreti de reformatione, il can. 16: il Concilio di Trento chiedeva ai vescovi di ordinare solo chi fosse da essi riconosciuto “utile o necessario” al servizio della Chiesa, e non chiunque lo desiderasse indipendentemente dal bisogno della diocesi (cf COD 749,37-750,6). È vero che questa richiesta rispecchiava una problematica completamente diversa rispetto a quella odierna – quella del numero eccessivo di persone che desideravano intraprendere la “carriera ecclesiastica” come mezzo per ottenere benefici economici – e che oggi, quindi, data l’attuale situazione di carenza di preti, un canone come quello potrebbe addirittura far sorridere e venire archiviato come norma fuori dal tempo. È anche vero, però, che questo canone custodisce un elemento essenziale del presbiterato: la sua finalizzazione alle esigenze oggettive della Chiesa locale. Tra i criteri di discernimento della vocazione presbiterale nei seminari dovrà forse trovare maggiore attenzione, accanto alla soggettiva generosità dei candidati, la effettiva disponibilità ad inserirsi nelle oggettive esigenze della propria Chiesa locale, espresse dalle scelte pastorali e missionarie che essa propone, e ad entrare in relazione viva con il presbiterio presieduto dal vescovo, come “soggetto globale” del ministero presbiterale in questa realtà locale. Questa disponibilità si gioca concretamente su tre legami: con il popolo di Dio, con il vescovo e con l’intero presbiterio.

Le nuove tentazioni accentratrici che, al dire di alcuni educatori nei seminari, si stanno riaffacciando tra le nuove generazioni, vanno senza dubbio corrette e costituiscono – a meno che il candidato non dimostri di poter cambiare – un indicatore vocazionale negativo. Occorre invece riscontrare prima e coltivare dopo la capacità del presbitero di “dare fiducia” ad altri soggetti (certo in maniera fondata e non avventata) e di inserirsi e favorire reti di corresponsabilità: con i laici, i diaconi, i vari ministri, i religiosi, le diverse figure di cooperatori pastorali.

La relazione con il presbiterio costituisce un’altra fonte di criteri per il discernimento nei seminari. La riscoperta, operata dal Vaticano II, del presbiterio come realtà teologica e non solo funzionale – basata cioè sulla comunione nel sacramento dell’Ordine (cf PO 7-8) – è gravida di conseguenze. Quattro decenni non bastano certo per il recupero del presbiterio come realtà teologica, dopo molti secoli di individualismo nella concezione e conduzione del ministero; occorreranno ancora molti anni di esperienze, luoghi e figure significative, per rivivere appieno, in maniera adeguata ai tempi, la teologia ignaziana del presbiterio. Molti passi si stanno compiendo nella Chiesa italiana: la formazione dei presbiteri alla vita comune (a vari livelli), istituzioni come i consigli presbiterali ed altre forme assembleari di presbiterio, occasioni periodiche di incontro del clero diocesano, sono solo alcuni degli elementi che vanno nella direzione di riprendere il presbiterio come soggetto ministeriale globale. Il discernimento nei seminari dovrà dunque riguardare anche la disponibilità del candidato ad entrare in una sorta di “soggetto comunitario”, a condividere progetti ed analisi, ad agire non per iniziativa privata, ma – pur mettendo in campo i propri doni – per decisione condivisa. È l’intero presbiterio, sotto la paternità del vescovo, a portare la responsabilità della missione propria dei ministri ordinati in una comunità locale.

La diocesi è davvero “Chiesa” se, oltre a vivere al proprio interno l’adesione alla Parola di Dio, la celebrazione dei sacramenti e la pratica della carità, vive la “communio ecclesiarum”, ossia coltiva la comunione con la Chiesa universale. Il garante della “communio ecclesiae”, all’interno della propria diocesi, e della “communio ecclesiarum”, nella relazione con le altre diocesi e quindi con il papa, è il vescovo diocesano. Il rapporto stretto dei seminaristi con il proprio vescovo favorisce quindi nello stesso tempo l’immersione nella realtà diocesana e l’apertura alle altre diocesi e alla Chiesa universale. Questo passaggio non si può saltare, pena un’appartenenza “individualistica” alla Chiesa. Come esistono nei seminaristi tendenze particolaristiche, troppo ripiegate sulla propria realtà locale, così esistono anche tendenze – più volte segnalate dai formatori – a richiamarsi direttamente alla Chiesa universale e al papa, saltando di fatto il riferimento alla Chiesa locale e al vescovo. È una tendenza che si rivela in ultima analisi funzionale ad un’obbedienza diversa da quella al proprio vescovo; un’obbedienza che, mantenendo come paravento il papa, in realtà si lega a qualcun altro, in genere fondatore o leader carismatico.

 

  1. L’amore a “questa” Chiesa: criterio di discernimento vocazionale

Santa Caterina è una tra le persone che ha amato di più la Chiesa; ma non una Chiesa astratta: la “sua” Chiesa. L’ha amata anche se presentava degli aspetti poco amabili, anche se ne vedeva – e ne denunciava con franchezza – tutti i limiti, le miserie, i peccati. È questo l’amore vero nei confronti della Chiesa. Tra le tante tentazioni contro l’amore, una sembra vincere spesso: pochi cristiani – e ancor meno seminaristi e preti – escludono totalmente l’amore dalla loro vita… no: solo lo rimandano. Rimandare l’amore è ancora più sottile che rifiutarlo, ma l’effetto è lo stesso. Non si dice: non voglio amare; e nemmeno: non potrò amare. Si dice: in questa situazione è impossibile amare; queste persone non sono amabili: quando la situazione muterà, allora potrò amare; quando questa persona cambierà, allora potrò amarla. Quando il mio amico, i miei genitori, mia moglie, mio marito saranno amabili, allora potrò amarli. E ancora di più: quando questa Chiesa sarà amabile, quando il vescovo, il parroco, il presbiterio, la superiora, il provinciale saranno amabili, allora senz’altro anch’io riuscirò ad amarli.

E se il Signore avesse fatto così con noi? Non avrebbe mai intrapreso la via della Croce. È quanto scrive Kierkegaard, meditando sul rapporto tra Gesù e Pietro dopo il rinnegamento: «Cristo non disse: “Pietro deve cambiare e diventare un altro uomo prima ch’io possa tornare ad amarlo”. No, tutt’al contrario, Egli disse: “Pietro è Pietro ed Io lo amo; è il mio amore semmai che l’aiuterà a diventare un altro uomo!”. Egli non ruppe quindi l’amicizia per riprenderla forse quando Pietro fosse diventato un altro uomo; no, Egli conservò intatta la sua amicizia, e fu proprio questo che aiutò Pietro a diventare un altro uomo»5. Altrimenti si rimanderà sempre ad una migliore situazione, ad un ideale che non verrà mai. Conosco persone che amano la Chiesa del passato – “com’era bravo il papa di prima!” – e la Chiesa del futuro, quella senza celibato, senza dogmi e senza istituzioni – ma non quella del presente. Sono anche brave persone, ma non hanno certo a cuore la “salvezza”. Credo che tra gli indicatori vocazionali al sacerdozio ministeriale si collochi l’amore a “questa” Chiesa, alla Chiesa concreta in cui uno vive; la critica è giusta e necessaria, purché avvenga nella modalità di Santa Caterina: da “dentro” la famiglia, in un dono totale, con un amore che si gioca interamente per la Chiesa. Solo chi ama “questa” Chiesa e si “affadiga” per renderla sposa di Cristo più santa e più fedele, ama anche gli uomini del proprio tempo e in tal modo – per il fatto stesso di rendere la Chiesa più vicina e più “familiare” e quindi di favorire l’appartenenza ad essa – si spende per la loro “salvezza integrale”.