N.04
Luglio/Agosto 2019

Guardate i gigli dei campi (Lc 12,27)

Le ricchezze del mondo, anche se si accumulassero tutte nelle mani di una sola persona, non hanno alcun valore davanti a Dio: ai suoi occhi è prezioso un animo confidente che sa riporre la sua speranza nell’Unico che può dare salvezza e Vita in abbondanza.

Confidare è molto più che fidarsi: significa riconoscere che l’unica salvezza è là dove riponiamo ogni confidenza, che non c’è alternativa e non c’è speranza altrove. Le pecore della parabola del Pastore bello (Gv 10,1-18) hanno questa confidenza: sanno che possono lasciarsi condurre solo dal loro Pastore, di cui conoscono la voce e hanno sperimentato l’amore, che giunge fino all’effusione del sangue. E il Salmo 1 sottolinea questa verità, ribadita con forza dai profeti (cf. Ger 17,5-8): solo chi confida nel Signore è benedetto. Le parole non sono casuali, se consideriamo che nella Bibbia la benedizione è una promessa di vita (cf. Gen 1,22.28).

Il Signore ha fatto bene ogni cosa. La dimensione della nostra esistenza, fatta di corpo e di precarietà, è anch’essa bellezza che ci proietta verso un altrove: il termine ebraico basar, che definisce il corpo, la carne, esposta alla morte e alla corruzione, deriva da un radicale assai interessante, che produce anche un verbo il cui significato è propriamente manifestare, rivelare. Nella carne dell’uomo si manifesta dunque il trascendente e la nostra dimensione carnale, con tutta la sua precarietà, è, secondo la Bibbia, una manifestazione di Dio: ciò consente di comprendere il compimento della rivelazione in Cristo, che si realizza nel suo prendere una carne mortale, nel manifestare nel suo corpo e nella sua persona l’immagine del Padre (cf. Gv 14,9). In questa luce comprendiamo che la nostra stessa precarietà è un dono di salvezza: essa ci permette di riconoscere il nostro niente e di affidarci totalmente al Signore della Vita. La precarietà diventa così condizione dell’incontro con l’altro/Altro e della salvezza, che si realizza nel corpo stesso, in questo limite invalicabile che, nell’Incarnazione, il Signore ha assunto per trasfigurarlo.

Siamo chiamati ad accogliere il nostro limite, la nostra precarietà, per offrirla nelle mani di Chi può prenderla e trasformarla in una messe grande. Siamo chiamati ad essere come i gigli del campo: belli nella loro semplicità, che dice tutta la confidenza in Colui che ci ha chiamati fin dal seno materno e ha pensato per noi una missione insostituibile, non in forza delle nostre capacità, ma in ragione della sua grazia, per cui “tutto possiamo in Colui che ci da la forza” (cf. Fil 4,13).

E’ il Signore che ci riveste: all’indomani del primo peccato, subito dopo il tentativo fallimentare e mortifero degli uomini di allontanarsi da Dio e di superare il proprio limite e la propria precarietà, il primo atto di attenzione e di misericordia del Signore nei confronti degli esseri umani è procurare loro una veste (cf. Gen 3,21). Egli ha cura del loro corpo, lo copre e lo protegge, soprattutto quando esso manifesta ed espone, con l’avvento della colpa, tutto il rischio che è dato dalla sua vulnerabilità. La veste è immagine ricchissima nella tradizione biblica: essa descrive la regalità, è simbolo fondativo nella parabola del padre misericordioso, e in questa parabola dei gigli del campo descrive la sollecitudine di Dio per tutte le sue creature, alle quali assegna, già nella contingenza della vita terrena, autentica bellezza ed eleganza. Essere rivestiti significa esplicitamente, nella sensibilità biblica, essere investiti di una salvezza soprannaturale, del tutto gratuita, non dipendente dai nostri meriti: per questa ragione la veste, simbolo della figliolanza, della regalità e dunque della benedizione elettiva, è uno dei segni del battesimo, il sacramento dell’adozione a figli, ed è elemento centrale della professione religiosa.

La veste si procura ai figli, e pertanto descrive in modo mirabile il farsi come bambini, bisognosi di tutto, che è additato dal Signore Gesù come via maestra per entrare nel Regno dei Cieli (cf. Mt 18,3). Il bambino sa insegnarci un atteggiamento, ed è su questo che Gesù richiama la nostra attenzione, in quanto è condizione necessaria per la sequela: il bambino ha totale confidenza in chi si prende cura di lui, nella sua mamma e nel suo papà, ed è felice di essere figlio. Un bambino piccolo non possiede nulla, la sua vita è precaria perché dipende totalmente dalla cura che riceve dai genitori; eppure un figlio è felice della sua condizione, e in quella dipendenza colma di amore si sente al sicuro. Allo stesso modo siamo chiamati a vivere anche noi, come bimbi in braccio alla madre (cf. Sal 131,2): del tutto dipendenti dall’Amore del Padre, da esso tenuti in vita e chiamati alla Vita senza fine, bisognosi di tutto, fatti simili al Figlio dell’uomo (cf. Mt 8,20; Lc 9,58) e consapevoli che tutto ci sarà dato in aggiunta, in una precarietà salvifica, se sapremo affidarci all’unico Signore e cercare sopra ogni cosa il suo Regno e la sua salvezza.