N.06
Novembre/Dicembre 2019

«La migliore versione di te stesso»

Orizzonti sulla vocazione

 

«La parola ‘vocazione’ non è scaduta. L’abbiamo ripresa nell’ultimo Sinodo, durante tutte le sue fasi. La sua destinazione rimane il popolo di Dio, la predicazione e la catechesi e, soprattutto, l’incontro personale che è il primo momento dell’annuncio del Vangelo (cf. Evangelii gaudium, 127-129). Conosco alcune comunità che hanno scelto di non pronunciare più la parola ‘vocazione’ nelle loro proposte giovanili, perché ritengono che i giovani ne abbiano paura e non partecipino alle loro attività. Questa è una strategia fallimentare. Togliere dal vocabolario della fede la parola ‘vocazione’ significa mutilarne il lessico correndo il rischio, presto o tardi, di non capirsi più»[1].

In queste pagine vogliamo[2] prendere in mano questa parola, osservarla da differenti angolazioni per riconoscere i motivi che l’hanno resa ‘odiosa’ e riscoprirne i significati. Ai giovani – infatti, ma non solo a loro – il termine non è propriamente chiaro: «occorre, perciò, una maggiore comprensione della vocazione cristiana […] e della chiamata universale alla santità. Discernere la propria vocazione può essere una sfida, specialmente alla luce degli equivoci che circondano questa parola»[3].

Il mio contributo vuole acconsentire a quell’opera di restauro avviata con la XV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi e che già riscontro in alcuni scambi personali con chi lavora nella pastorale vocazionale e giovanile in particolare: la possibilità di far riemergere i tratti della sapienza della parola ‘vocazione’ e portare alla luce il suo originario splendore. Qui intendo porre qualche accento su alcuni aspetti che mi sembrano centrali facendo apparire orditi fecondi capaci di innescare inedite trame per un rinnovato annuncio vocazionale. Di questo abbiamo bisogno.

 

Vocazione/i

Nel corso dell’anno, l’Ufficio Nazionale per la pastorale delle vocazioni ha realizzato un’indagine statistica per testare il polso dei cattolici praticanti proprio sul significato della parola ‘vocazione’. «Il termine che viene immediatamente collegato è […] ‘fede’, ma anche ‘Chiesa’ e ‘chiamata’. Seguono solo dopo altri termini legati perlopiù ad un concetto di vocazione sacerdotale quali ‘prete’ e ‘sacerdozio’, ma in primo luogo ‘vocazione’ sembra essere un termine che coinvolge in prima persona la vita di tutti i credenti»[4]. Il dato è interessante almeno per due motivi: intanto, permette di rilevare l’inizio di una emancipazione da quell’idea di vocazione riferita unicamente al sacerdozio ministeriale e allo stato di vita secondo i consigli evangelici, avviato con l’accento posto dal Concilio Vaticano II sulla universale chiamata alla santità[5] e «ribadita in svariate circostanze dal magistero successivo»[6]. Dall’altra, però, lascia emergere uno dei limiti del nostro tempo, incline a lasciar evaporare qualsiasi orizzonte di scelta definitiva[7]. In altre parole: se da una parte si è slegato il concetto di ‘vocazione’ da quello di ‘vocazioni’, dall’altra si rischia di marcare il primo a scapito del secondo. In maniera grossolana – raccogliendo una delle esperienze più comuni di chi accompagna i giovani – se prima ‘avere la vocazione’ significava pensare di diventare preti o consacrarsi, oggi il rischio è sapere che la chiamata è per tutti, che ognuno ‘ha la sua vocazione’ senza che poi si concretizzi in una reale scelta di vita.

In maniera più sottile, invece, una prospettiva feconda è quella di tenere accesa una tensione tra i termini, considerando ‘vocazione’ e ‘vocazioni’ in maniera complementare. Infatti, possiamo riconoscere che il secondo assorbe il primo facendo caso al passaggio mentale quasi automatico che si compie tra la vocazione e le sue forme[8]. Oltre che essere uno dei motivi della disaffezione al concetto stesso di vocazione, tale riduzione soffoca l’annuncio vocazionale rendendolo esclusivo. Al contrario, perdere lo sguardo sulle forme della vocazione acconsente – senza volerlo – alla sempre maggiore diffusione di un uso ‘secolarizzato’ del termine che induce ad identificare la vocazione con qualsiasi ambito di vita dissolvendone la portata e rinunciando a qualsiasi proposta vocazionale specifica[9]. Tenere in tensione ‘la vocazione’ e ‘le sue forme’[10] è un primo filo dell’ordito.

 

Missione

«Bisogna riconoscere se stessi come marcati a fuoco da tale [missione al cuore del popolo] di illuminare, benedire, vivificare, sollevare, guarire, liberare. Lì si rivela l’infermiera nell’animo, il maestro nell’animo, il politico nell’animo, quelli che hanno deciso nel profondo di essere con gli altri e per gli altri». «Io sono una missione su questa terra, e per questo mi trovo in questo mondo»[11]. Il profondo rinnovamento missionario che oggi la Chiesa desidera vivere[12] lascia emergere un altro filo, rimasto nascosto, eppure vitale.

Il tema della vocazione è da declinare nella direzione del discernimento. Basti notare l’evidenza posta nel titolo stesso dello scorso Sinodo: «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale». Discernere la propria vocazione è il ritornello che noi – ‘addetti ai lavori’ – proponiamo costantemente ai giovani e agli adolescenti che incontriamo. Facciamo bene, si intenda. Notiamo, tuttavia, che quando diciamo ‘discernimento’ l’immagine che si palesa è sovente quella della introspezione. Non che sia un male, ma è soltanto una parte. Perché possa produrre energia e mettere in movimento va ampliata con quell’altro polo che ci viene ricordato da papa Francesco con quella dirompente ovvietà delle cose vere: «Tante volte, nella vita, perdiamo tempo a domandarci: ‘Ma chi sono io?’. Tu puoi domandarti chi sei tu e fare tutta la vita cercando chi sei tu. Ma domandati: ‘Per chi sono io?’. Tu sei per Dio, senza dubbio. Ma Lui ha voluto che tu sia anche per gli altri e ha posto in te molte qualità, inclinazioni, doni e carismi che non sono per te, ma per gli altri» (ChV 286). Disarmante. Ricorda in tutta semplicità che l’uomo da solo non esiste, ma che ciascuno fa parte di una polis e di un cosmos: non si può scoprire la propria vocazione-missione guardando solamente ‘dentro di sé’.

Si tratta di ‘iniziare al guardare fuori’ per riconoscere la chiamata che viene dalla realtà, dalla storia, dai fatti, dalle occasioni, dai volti dei fratelli e delle sorelle che gridano e invocano vicinanza, accoglienza, prossimità. Si tratta di ricordarsi che la vocazione non è mai soltanto ‘mia’ o solo ‘per sé’ ma è sempre ‘per qualcun altro’, a servizio di qualcuno, ‘al cuore del popolo’: «i veri sogni sono i sogni del noi»[13], che – ad immagine della Trinità (Gen 1,27) – non dissolvono il ‘sé’ ma lo compiono nel dono.

Guardare fuori, incontrare la realtà è allenarsi in una ‘lectio historiae’ che insegna a riconoscere, nella trama di ciò che accade, gli appelli della vita, a partire dai quali è possibile intuire la propria vocazione-missione. Infatti, il discernimento parte dall’esperienza e si realizza nella coscienza: «Che cos’è questo che mi sta accadendo? Che cosa vivo? Che cosa mi dice? È una cosa buona?». In altre parole, si tratta di imparare ad essere ‘terreni’ – come insegna la parabola del seme nel campo (cf. Mc 4) – perché questo è l’unico modo per poter accogliere la Vita.

Il secondo filo dell’ordito ci mostra la fecondità di tenere insieme ‘dentro’ e ‘fuori’ e l’unica porta per farlo è la coscienza, quel «nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria»[14]. Per ascoltarla è necessario fermarsi (Sal 46,11) e questo, oggi, fa paura, perché fermarsi sembra far rima con ‘affondare’[15]. È necessario accompagnare nel riconoscere che ‘a fondo’ non si trova il nulla, il vuoto, la solitudine, i mostri ma «la stanza principale quella dove si svolgono le cose di grande segretezza tra l’anima e Dio»[16]; la più grande di queste è la scoperta – per mezzo della voce dello Spirito che abita il cuore (cf. Rm 5,5; 8,16) – della nostra figliolanza. In questa luce è possibile lasciar emergere anche le proprie ferite perché siano bagnate dall’oro di Dio[17]. La chiave, per entrare nella porta, è il sentire[18] – l’affetto. Accompagnati da persone ‘qualificate’ (ChV 291) nell’ascolto della Parola e della Storia, il discernimento della vocazione-missione inizia dal proprio sentire, per intuire attraverso la ragione, l’intelligenza e il dialogo con Dio, la decisione da prendere in risposta all’invito[19].

 

Progetto

Ancoriamo al telaio della parola vocazione un terzo filo attorno al quale immaginare percorsi antichi e nuovi: «Io sono una missione su questa terra, e per questo mi trovo in questo mondo. Di conseguenza, dobbiamo pensare che ogni pastorale è vocazionale, ogni formazione è vocazionale e ogni spiritualità è vocazionale» (ChV 254).

Insieme a ‘discernimento’ uno degli elementi cardine della predicazione e dell’annuncio riguardo la vocazione è «la scoperta del progetto che Dio ha sulla nostra vita»[20]. Eppure nulla, come la parola progetto rischia – ahimé – di mettere in fuga i più audaci e creativi (ChV 138) e di rassicurare i più incerti ed insicuri. Da una parte, infatti, non alletta per nulla la distorta idea di dover costringere la propria vita all’interno di un copione già scritto, dall’altra convince l’illusoria possibilità di esimersi da ogni rischio o presa di responsabilità (ChV 143).

Le radici di questa parola, invece, sono bagnate di futuro, hanno il medesimo sapore della pro-fezia (profezia oppure  in latino prophetia – parlare in nome di)  È lo sguardo vocazionale di Gesù che vede nei campi ancora deserti di Samaria la possibilità di una messe abbondante che viene dalla vocazione della donna incontrata al pozzo. È lo sguardo dell’amore che intuisce, vede un pezzetto più in là, ma non costringe, non intima all’agire, lascia spazio perché la libertà si compia nella scelta. Lasciata la sua anfora (Gv 4,26), è libera nella possibilità di raccontare o meno quanto accaduto. Chi accompagna sa che quando l’incontro con il Signore è vero, la vita si muove, la vocazione inizia a compiersi e riconosce che se da una parte rimane possibile anche l’altra scelta, quella davvero cogente rimane la missione intuita.

Per dare maggiore luce, è necessario anche portare a galla il secondo elemento dell’antinomia e affiancare a ‘progetto’ la parola ‘creatività’. «Lungi dall’identificare unilateralmente il momento dell’ispirazione e dell’estro»[21], la creatività è caratteristica dell’Adamo plasmato ad immagine e somiglianza di quel Dio che si rivela – proprio in quell’atto stesso –, creatore: «La creatività […] è l’immagine del Creatore presente nell’uomo[22]. Non confondiamo i termini, assecondando la tentazione dalla quale siamo messi in guardia fin dagli inizi della Scrittura: diventare come Dio (Gen 3,5). Creativo deriva da Creatore e non può sostituirsi ad esso. Nella giusta postura, la parola dischiude il suo significato più vero e affida la propria respon-sabilità, la capacità–di–rispondere.

Non è difficile da riconoscere. Chiunque sia in qualche modo impegnato nell’esercizio di una paternità/maternità sa bene che l’esito felice dei suoi molti sforzi non sta nel fatto che chi cresce corrisponda ripetendo semplicemente quanto gli viene detto o insegnato[23] ma come accogliendo una eredità di talenti (Mt 25,15) da investire, rischiare e far fruttificare[24]. Tutti siamo seduti sul fronte della storia e possiamo gettare in avanti lo sguardo, verso quel futuro che ancora non esiste ma che già contiene la promessa del suo compimento. Come potrà essere la Chiesa di domani? Come la vita delle nostre comunità tra cinque o dieci anni? Quali orizzonti intuiamo come sfide capaci di generare futuro? La risposta alla vocazione riguarda non soltanto i suoi inizi ma anche il suo sviluppo, la vocazione (abbiamo già detto: mai soltanto ‘mia’ e sempre ‘con’ qualcuno e ‘per’ qualcuno) ha a che fare con la vita adulta e la sua responsabilità, che sempre si esercita nell’oggi[25].

 

Volontà

«Che cosa vuoi?» (Mc 10,51). La domanda sulla volontà necessariamente guida tutto il cammino vocazionale; del resto è l’unica che la Chiesa pone nel momento della scelta di vita. Il discernimento è orientato al momento in cui la risposta – «Sì, lo voglio» – risuona davanti all’Assemblea riunita per la celebrazione del rito del matrimonio, dell’ordinazione presbiterale, della consacrazione religiosa. La vocazione, insegna la Liturgia, concerne il proprio volere paradossalmente ancor prima del volere di Dio – che affermazione da vertigini! – perché, in questa direzione, nessun passo può essere accolto, se non voluto e non può essere voluto, se prima non è stato desiderato e scelto liberamente.

In questo caso i poli da tenere in tensione non sono più due, ma tre: la volontà, il desiderio, la libertà. Ridare corpo ai desideri è operazione oggi essenziale e se il desiderio ha il sapore delle stelle, ha sempre le sue radici nella realtà: è considerando (cum sidere – con la stella) la concretezza della vita che sorgono i desideri. E, se vengono da Dio, contengono in nuce la volontà capace di trasformarsi in gesto e dare forma alla libertà. È per questo motivo che se manca la volontà di attuarlo, probabilmente il desiderio è fallace, così come può essere illusorio un desiderio accompagnato da una volontà estremamente rigida, ferrea, puntata unicamente su di sé.

In altre parole: il desiderio senza la volontà rimane disincarnato, la volontà senza il desiderio uno sforzo inutile e infecondo (Sal 127,1). Il vero desiderio del cuore lascia liberi, fa crescere nella libertà,[26] rimane aperto alla possibilità che non si realizzi, se non dovesse corrispondere alla volontà del Padre. Tra volontà e desiderio si consolida la libertà e si orienta la scelta di vita.

Quale sia la propria vocazione – come ad essa si voglia corrispondere – lo dice anche la vita stessa, lo dicono i gesti e le azioni: andare, fare, toccare, prendere, lasciare, ricevere, costruire, sollevare, custodire… Ridare nome alle azioni che si compiono, introdursi all’esercizio di gesti curati, riconoscere che quando gli atti non corrispondono alle intenzioni, ai desideri, al loro orientamento originario, l’umore si inquina, la libertà si distorce, la vita scompare e fugge. Distinguere la debolezza della propria volontà, di fronte ad un desiderio vero permette di risollevarsi dalle cadute, pone nella giusta dimensione del continuo bisogno di essere salvati, insegna l’esercizio della libertà nel campo seminato, tra grano e zizzania (cf. Francesco, Evangelii gaudium, 24).

 

Movimento

Si riscontra un equivoco attorno alla parola ‘vocazione’: involontariamente, si ritiene riguardi unicamente la fase giovanile e adolescenziale[27]. Anche quando il sostantivo si trasforma in aggettivo, l’immagine più diffusa rimanda al medesimo significato. «Dobbiamo pensare che ogni pastorale è vocazionale, ogni formazione è vocazionale, ogni spiritualità è vocazionale» (ChV 254). Che cosa significa? Che la preoccupazione di papa Francesco è che ognuno di questi ambiti si prenda a cuore la ‘promozione delle vocazioni’?[28] Forse che il Sinodo voglia sollevare il problema della ‘crisi delle vocazioni’ e cerchi di porvi rimedio? Senza banalizzare il problema dobbiamo ricordare che l’orizzonte è decisamente più ampio[29].

Il penultimo filo del nostro ordito è il movimento. Abbiamo bisogno di dare dinamicità all’idea di vocazione che viene concepita in maniera statica, la si assomiglia ad un ruolo, un’etichetta, un segnale stradale che indica una direzione che, intrapresa, non serve più. Purtroppo, nella maggior parte dei casi la questione ‘vocazione’ si riduce ancora al discernimento iniziale: una volta intrapresa la via (con l’ordinazione presbiterale, la consacrazione religiosa, il matrimonio, la scelta di vita) il discernimento vocazionale – è un’espressione che si usa spesso – ‘è concluso’, non serve più.

Se da una parte è vero perché riconoscere la propria vocazione-missione è orientare tutta la propria libertà all’interno di una scelta di vita capace di ‘mettere gli argini’ a tutta l’energia e la passione della giovinezza perché possa finalmente incanalarsi, convergere e non dilagare, dall’altra è decisivo considerare che la questione vocazionale riguarda soprattutto gli adulti perché è in quella fase che la vita è fatta per generare, mettere al mondo, costruire, portare frutto.

A mio avviso, l’insistenza della XV Assemblea Sinodale sul discernimento vocazionale ha voluto offrire alla Chiesa un rinnovato sguardo su se stessa osservando nei giovani – come in uno specchio – ciò che rimane essenziale anche e soprattutto per gli adulti. Che cosa vuoi? Per chi sono io? Che significa per me (per noi) far germogliare e coltivare tutto ciò che siamo (cf. ChV 257)? Chi vive in comunità, in famiglia, provi a porsi le domande del discernimento iniziale e ne riconoscerà tutta una rinnovata fecondità.

Nel periodo trascorso dopo il Concilio Vaticano II, lo sforzo della riflessione sulla vocazione, da una parte ha spinto a riconoscere la ‘comune dignità di tutte le vocazioni’, dall’altra ha insistito sulla concezione della ‘vita come vocazione’ e – forse meno – che ‘vocazione è tutta la vita’.

 

Comunione

Da ultimo. All’inizio del Terzo Millennio, Giovanni Paolo II intuì una profezia per la Chiesa: «Diventare la casa e la scuola della comunione»[30]. All’inizio degli anni Duemila il refrain che invitava alla ‘collaborazione’ entusiasmò, ma anche deluse perché vennero cercati i frutti (la collaborazione) senza coltivare le radici (la comunione). Nella medesima profezia, anche l’orizzonte di Francesco – la sinodalità – può correre lo stesso rischio. Facciamo attenzione! Non si può lavorare insieme senza lasciar emergere la comunione che è dono di Dio, che soltanto può essere ricevuta, che non è da costruire, ma già c’è in quanto siamo membra del Corpo di Cristo. Sentire e pensare in comunione è convertire lo sguardo per riconoscere la fitta rete di connessioni che legano l’uno alla vita dell’altro (Gen 44,20). È una conversione continua da compiere, un modo di pensare, un’apertura della mente all’orizzonte di Dio che permette di riconoscersi come una semplice tessera dell’enorme mosaico della storia e della geografia della salvezza; eppure, una tessera unica, con una missione che ognuno soltanto può compiere, nella sinergia con Dio e con gli altri. «La pastorale [giovanile] non può che essere sinodale, vale a dire capace di dare forma a un ‘camminare insieme’ che implica una ‘valorizzazione dei carismi che lo Spirito dona secondo la vocazione e il ruolo di ciascuno dei membri della Chiesa, attraverso un dinamismo di corresponsabilità» (ChV 206) e di reciproco annuncio.

 

La migliore versione di te stesso

«La migliore versione di te stesso» è la geniale definizione di vocazione che un giovane pellegrino ci ha regalato a Panamá durante la scorsa Giornata Mondiale della Gioventù. L’abbiamo trovata scritta su uno dei più di mille post-it di preghiera che hanno coperto le pareti del nostro stand. Mi piace, perché sembra intercettare molto bene il desiderio e la volontà di Dio; mi piace molto, perché accompagnarsi in quest’opera è una cosa buona, da fare.

 

 

 

[1] Francesco, Incontro con i partecipanti al congresso dei centri nazionali per le vocazioni delle Chiese d’Europa, Roma, 6 giugno 2019.

[2] Questo contributo vuole raccogliere, insieme ad alcune convinzioni personali, anche suggestioni, proposte, riferimenti, questioni sollevate in diversi confronti tra responsabili e operatori di pastorale vocazionale.

[3] xv assemblea generale ordinaria del sinodo dei vescovi, Documento finale pre-sinodale dei giovani, 11.

[4] Macrì, E. – Cortellessa, P., «Vocazione che scuote e interroga: una ricerca statistica tra i cattolici praticanti», Vocazioni XXXVI (2019) 1, 26-28; ulteriori approfondimenti sono disponibili su www.vocazioni.online.

[5] Concilio Ecumenico Vaticano II, Lumen gentium, 48-50.

[6] Pontificia Opera per le Vocazioni Ecclesiastiche, Nuove vocazioni per una nuova Europa. Documento finale del Congresso sulle Vocazioni al Sacerdozio e alla Vita Consacrata in Europa, Roma, 5-10 maggio 1997, 11.

[7] Cf. Francesco, Christus vivit, 264. D’ora in poi ChV.

[8] Per una approfondita trattazione sull’argomento vedi: Martinelli, P., Vocazione e forme della vita cristiana. Riflessioni sistematiche, Bologna 2018, 28-33.

[9]  «Se partiamo dalla convinzione che lo Spirito continua a suscitare vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa, possiamo “gettare di nuovo le reti” nel nome del Signore, con piena fiducia. Possiamo – e dobbiamo – avere il coraggio di dire ad ogni giovane di interrogarsi sulla possibilità di seguire questa strada» (ChV 274).

[10] «Per coloro che non sono chiamati al matrimonio o alla vita consacrata, occorre ricordare sempre che la prima e più importante vocazione è la vocazione battesimale» (ChV 267); «Nel discernimento di una vocazione non si deve escludere la possibilità di consacrarsi a Dio nel sacerdozio, nella vita religiosa o in altre forme di consacrazione. Perché escluderlo?» (Idem, 276).

[11] Francesco, Evangelii gaudium, 273; ChV 264.

[12] Idem, 127.

[13] Francesco, Veglia di preghiera con i giovani italiani, Roma 11 agosto 2018.

[14] Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et spes, 16.

[15] Illuminante un’espressione citata da Z. Bauman: «Pattinando sul ghiaccio sottile, l’unica speranza di salvezza è la velocità» (R.W. Emerson).

[16] Teresa d’Avila, Il castello interiore, I, I, 2-3.

[17] F.M. Sieni, «La polvere e l’oro. L’impasto della vita», Vocazioni 36 (2019) 4, 20-23.

[18] «Se teniamo per certo che l’affettività […] è la risonanza nella coscienza di una situazione esistenziale […] e dall’altra sosteniamo che il mondo spirituale è costituito dalla vita divina partecipata, sarà inevitabile che la risonanza della vita soprannaturale nella coscienza susciti un’affettività spirituale: la comunicazione di vita genera gaudio e dilatazione dell’anima; l’allontanamento da essa genera tristezza» (Ch. A. Bernard, Teologia spirituale, 41).

[19] Lonergan, B.J.F., Il metodo in teologia, Opere di Bernard J.F. Lonergan 12, Roma 2001, 24-25.

[20] Francesco, Messaggio per la 56a Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, 31 gennaio 2019.

[21] Vedi un interessante studio di: C. Scardicchio, Logica & Fantastica. «Altre» parole nella formazione, Pisa 2012, 15-23.

[22] Per alcune provocazioni di studio a riguardo vedi: N. Berdjaev, Il senso della creazione. Saggio per una giustificazione dell’uomo, Milano 2018.

[23] «O ci allontaniamo dal male per il timore del castigo e siamo nella disposizione dello schiavo. O ci lasciamo prendere dall’attrattiva della ricompensa e siamo simile ai mercenari. Oppure è per il bene in se stesso e per l’amore di colui che comanda che noi obbediamo […] e allora siamo nella disposizione di figli (san Basilio Magno)» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1828).

[24] «Tutti gli esseri soggetti al divenire non restano mai identici a se stessi, ma passano continuamente da uno stato ad un altro mediante un cambiamento che opera sempre, in bene o in male… Ora, essere soggetto a cambiamento è nascere continuamente… Ma qui la nascita non avviene per un intervento estraneo, com’è il caso degli esseri corporei… Essa è il risultato di una scelta libera e noi siamo così, in certo modo, i nostri stessi genitori, creandoci come vogliamo, e con la nostra scelta dandoci la forma che vogliamo (Gregorio di Nissa)» (Giovanni Paolo II, Veritatis splendor, 71).

[25] «Vorrei ricordare che il Cardinale Francesco Saverio Nguyên Van Thuân, quando fu imprigionato in un campo di concentramento, non volle che i suoi giorni consistessero soltanto nell’attendere e sperare un futuro. Scelse di «vivere il momento presente riempiendolo d’amore»; e il modo in cui lo realizzava era questo: “Afferro le occasioni che si presentano ogni giorno, per compiere azioni ordinarie in un modo straordinario”» (ChV 148).

[26] Cf. Francesco, Christus vivit, 283-286.

[27] Sebbene ancora lontana dalla prassi pastorale, l’indicazione non è nuova: «Va anche corretta l’idea che la pastorale vocazionale sia esclusivamente giovanile, poiché in ogni età della vita risuona un invito del Signore a seguirlo, e solo in punto di morte una vocazione può dirsi realizzata completamente. Anzi, la morte è la chiamata per eccellenza, così come c’è una chiamata nella vecchiaia, nel passaggio da una stagione all’altra della vita, nelle situazioni di crisi» (Pontificia Opera per le Vocazioni Ecclesiastiche, Nuove vocazioni per una nuova Europa, 26e).

[28] La frammentazione pastorale di cui soffriamo ha teso ad affidare compiti particolari a soggetti specifici perdendo di vista l’intero. Così anche se «in una Chiesa tutta vocazionale, tutti sono animatori vocazionali» (cf. In Verbo tuo, 6) la pastorale vocazionale è stata delegata sempre più a esperti e/o incaricati; ciò ha favorito un significativo studio e approfondimento di percorsi in particolare di discernimento vocazionale e uno sviluppo dei percorsi di accompagnamento personale, ma ha portato con sé il limite della specializzazione e del progressivo distacco dal territorio e dalla realtà concreta e quotidiana, nella quale invece deve passare sia l’annuncio che l’accompagnamento.

[29] Cf. M. Gianola, «“Vedo un ramo di mandorlo”. Uno sguardo alla vocazione dalla parte di Dio», in Vocazioni 36 (2019) 1, 32-34.

[30] Giovanni Paolo II, Novo millennio ineunte, 43.