N.06
Novembre/Dicembre 2019

La speranza della vostra vocazione (Ef 4,4)

È un uomo prigioniero e solo a parlarci di speranza, esortando al comportamento opportuno, quello che ritrova il senso di tutto ricapitolando il progetto di una vita intera.  

L’apostolo Paolo, afferrato e stravolto dall’amore di Cristo che gli ha letteralmente cambiato i connotati di valutazione della realtà, quasi sul finire della sua vita, non cessa di esortare a ciò che conta davvero, perché pur prigioniero nel corpo, mantiene la libertà dello Spirito, quella che le catene visibili non possono costringere.  

L’esortazione consegnata ai cristiani della Chiesa di Efeso, sostenuta dall’autorità di chi parla in nome di Dio, non indirizza l’attenzione degli interlocutori, innanzitutto, su qualcosa da fare. C’è una collocazione mentale e spirituale da raggiungere per poter trarre le adeguate conclusioni (il comportamento degno per dirla con Paolo): fissare lo sguardo su ciò che si è ricevuto. 

La dignità giusta mi viene donata, la devo riconoscere, non la guadagno con la mia intelligenza o pretestuosa buona volontà, semmai con queste qualità la custodisco dopo averla riconosciuta. 

È una profonda e chiarissima chiamata all’unità, a trovare il centro da cui ogni cosa promana vivificando e conferendo senso al tempo, alla vita, alle scelte, quelle che hanno la presunzione di voler durare nel tempo. 

Paolo richiama all’unità della vita interiore muovendo, come gli è solito, da basi molto concrete: la vita è una e non la si può spezzettare in parti che non si incontrano o si scontrano e questa, a volte nostro malgrado, è l’esperienza più vera che facciamo, anche oltre ogni ansia di dissimulazione con gli altri.  

Tutti, sembra intendere l’apostolo, facciamo esperienza di essere “uno”. Tale è il nostro corpo, tale il nostro spirito che, plasmato, non di rado anche assoggettato alle questioni che incontriamo lungo il cammino della vita, resta anch’esso unico. A questa esperienza concretissima risponde, con la stessa unicità la speranza. 

E qui si raggiunge una vetta altissima. Cos’è la speranza? Intorno a quali cose si agita la mia speranza? Che cosa posso sperare? 

La speranza cristiana è attesa, è una tensione persistente (cfSal 25), è fiducia (cfSal 52) tormentata e incrollabile, è sicurezza nell’abbandono da guadagnare ad ogni passo, è aspirazione a qualcosa di definitivo e aperto al continuo superamento (cfSal 130), è la ricerca di un rifugio che non è paura, ma desiderio di appartenenza e di custodia (cfSal 61).  

La speranza è un cammino a volte più faticoso del previsto, ma colmo di dolcezza, è ciò che permette di oltrepassare le razionali aporie della sofferenza ingiusta, della banale gratuità del male e non concede agli occhi di rinunciare a scrutare l’orizzonte, accontentandosi del ripiegamento sull’oggi scambiato per il tutto (cf. l’esperienza di Giobbe e la sapienza di Qohelet). La speranza è promessa di futuro da parte di Dio ed attraversa la gestazione del presente (cfRm 8), è una tensione sempre viva e non risolta, prende corpo in una risposta perché si identifica con una chiamata: è la nostra vocazione. L’apostolo ci indica l’orizzonte che colloca tutta la nostra vita di fronte a quel Dio che ci ama e ci permette di capire che nulla è frutto di un caos senza senso, al contrario tutto può e deve essere inserito in un cammino di risposta al Signore che ha un progetto stupendo per noi (cfChristus Vivit n. 248). 

È questo il vertice da raggiungere: un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione (Ef 4,4). 

La risposta è l’inizio di un’amicizia che ci salva dalla vita che se ne va via triste perché incapace di staccarsi dai beni che diventano catene, dai vincoli che costruiscono prigioni (cf. Mt 19,22).  

La risposta è la prima battuta nella sinfonia del discepolato, perché non si può seguire un sentimento, un’emozione, un’intenzione… si segue una promessa che scuote il cuore, lo rende inquieto, lo sconquassa, lo dilata per amare dopo essersi lasciato amare.