La lunga notte dell’Innominato

Alessandro Manzoni

Quando il prossimo ti costringe a distogliere l’attenzione dal tuo obiettivo, con una certa probabilità il tuo primo pensiero non è… celeste. Soprattutto nel caso in cui il prossimo non domandi solo una deviazione di qualche ora, ma ti costringa a fare con lui un miglio (Mt 5, 41), ad andare in direzione opposta senza poter tornare indietro, ad abbandonare la meta che eri convinto/a fosse la più giusta per te.

È un momento di buio grande: l’obiettivo precedente faceva da faro, e ora è venuto a mancare. Il punto di riferimento è perso. Può capitare a tutti, a una ragazza di fronte al no che non si aspettava, a un giovane di fronte a una scelta di lavoro obbligata, anche a san Paolo, che la cecità di quel momento la sperimentò fisicamente (At 22, 6-11).

Persino fra i libri che abbiamo abbandonato dopo la scuola c’è qualcuno che, ignaro delle analisi del testo che gli studenti hanno dovuto dedicargli, può capire molto bene come ci si sente in quelle ore buie: l’Innominato. Lui, che mai una volta aveva barcollato sulla strada verso il potere, ascoltando le preghiere di Lucia prigioniera prova qualcosa di inaspettato. Va in crisi, mette in dubbio la sua intera storia, pensa di aver smarrito la propria identità.

Finché arriva il mattino, e con esso eventi che cambieranno la sua vita e pensieri nuovi che sembreranno una folata d’aria fresca in una stanza chiusa da tempo. Ecco di cosa si accorge l’Innominato: stavo prendendo una cantonata, non era quello il meglio in cui potevo sperare per me stesso. Intravedo una nuova direzione, ed è cento volte migliore. Meno male che quella Lucia mi ha messo in crisi.

Spoiler: l’Innominato alla fine si converte.

 

— La libererò, sì; appena spunta il giorno, correrò da lei, e le dirò: andate, andate. La farò accompagnare… E la promessa? e l’impegno? e don Rodrigo? […]

[…] Andava dunque cercando le ragioni per cui, prima quasi d’esser pregato, s’era potuto risolvere a prender l’impegno di far tanto patire, senz’odio, senza timore, un’infelice sconosciuta, per servire colui; ma, non che riuscisse a trovar ragioni che in quel momento gli paressero buone a scusare il fatto, non sapeva quasi spiegare a sé stesso come ci si fosse indotto. Quel volere, piuttosto che una deliberazione, era stato un movimento istantaneo dell’animo ubbidiente a sentimenti antichi, abituali, una conseguenza di mille fatti antecedenti […].

Aspettava ansiosamente il giorno, per correre a liberarla, a sentire dalla bocca di lei altre parole di refrigerio e di vita; s’immaginava di condurla lui stesso alla madre. — E poi? che farò domani, il resto della giornata? che farò doman l’altro? che farò dopo doman l’altro? E la notte? la notte, che tornerà tra dodici ore! Oh la notte! no, no, la notte! — E ricaduto nel vòto penoso dell’avvenire, cercava indarno un impiego del tempo, una maniera di passare i giorni, le notti. Ora si proponeva d’abbandonare il castello, e d’andarsene in paesi lontani, dove nessun lo conoscesse, neppur di nome; ma sentiva che lui, lui sarebbe sempre con sé: ora gli rinasceva una fosca speranza di ripigliar l’animo antico, le antiche voglie; e che quello fosse come un delirio passeggiero; ora temeva il giorno, che doveva farlo vedere a’ suoi così miserabilmente mutato; ora lo sospirava, come se dovesse portar la luce anche ne’ suoi pensieri. Ed ecco, appunto sull’albeggiare, pochi momenti dopo che Lucia s’era addormentata, ecco che, stando così immoto a sedere, sentì arrivarsi all’orecchio come un’onda di suono non bene espresso, ma che pure aveva non so che d’allegro. Stette attento, e riconobbe uno scampanare a festa lontano; e dopo qualche momento, sentì anche l’eco del monte, che ogni tanto ripeteva languidamente il concento, e si confondeva con esso.