N.02
2019 Marzo/Aprile

Giardino, che ti riveli a me in me stesso

Giovanni di Dalyatha

L’autocentramento sempre più spinto verso il culto del quale siamo invitati o, meglio, condotti, dalla totalità delle proposte che ci circondano, ormai in piena liberazione del narcisismo come condizione “normale”, potrebbe rendere difficile il cammino. E’ questione di sguardo verso il santuario interiore, il luogo dell’incontro, la cella vinaria, il talamo nuziale con lo Sposo.

Il testo che presentiamo è di un mistico siro-orientale nato in un villaggio dell’attuale Iraq settentrionale, verso la fine del VII secolo. Il suo nome è Giovanni. Entrò nella vita monastica e dopo un primo tempo di cenobio divenne eremita nella montagna di Dalyatha, da cui il nome con il quale lo conosciamo.

Questo testo, tratto da una sua lettera, ci indica la via interiore dell’incontro con l’Amato. Ognuna di queste espressioni è una lezione di vita spirituale, dove la dolcezza, il fuoco dell’amore e la bellezza fanno di questo monaco un degno commensale di un ideale banchetto dove potremmo incontrare invitati Giovanni della Croce, Teresa d’Avila, Caterina da Siena, Serafino di Sarov e molti altri mistici.

 

 

Beato colui che continuamente fissa gli occhi in te

mio Giardino, che ti riveli a me in me stesso.

Albero di vita che mi infiammi, nel cuore

ad ogni istante, col desiderio di te

e trasformi il mio volto con la forza del tuo amore

e stabilisci la mia intelligenza nello splendore

dei raggi della tua bellezza.

 

Beato colui che sempre ti cerca in se stesso

perché da lui stesso gli fluisce la vita (cf. Gv 7,38), per la sua gioia.

Beato colui che porta sempre nel suo cuore il tuo ricordo

perché anche la sua anima è inebriata dalla tua dolcezza.

Beato colui che fissa ad ogni istante (gli occhi) in te,

all’interno di se stesso

perché anche il suo cuore è illuminato

per vedere le cose nascoste.

Beato colui che ti cerca nel suo stesso essere

perché anche il suo cuore arde del tuo fuoco

nella cui veemenza purificatrice

brucia la sua carne insieme alle sue ossa.

[…]

Tu sei suo cibo e sua bevanda

sua gioia e sua esultanza

tu sei la sua veste (lett.copertura)

e con la tua gloria egli copre la sua nudità; (cf. Gen 3,7)

tu sei la sua abitazione

e la dimora dove egli trova riposo

e in te entra sempre a rifugiarsi (cf. Sal 91,9);

tu sei il suo sole e il suo giorno

e alla tua luce vede le cose nascoste;

tu sei il padre che lo ha generato

e te chiama “padre” come un figlio;

tu hai donato nel suo cuore lo Spirito (cf. Rm 5,5; 2Cor 1,22) di tuo Figlio

e questi gli ha donato la fiducia di chiederti (cf. 1Gv 5,14)

tutto ciò che ti appartiene,

come un figlio con suo padre.

È sempre nell’intimità con te,

poiché non conosce padre all’infuori di te.

 

Tu sei unito alla sua anima

tu sei mescolato alle sue membra

tu risplendi nella sua mente e lo catturi

perché stupisca alla tua vista.

Tu zittisci i moti della sua anima

per mezzo del moto del tuo amore;

tu baratti il desiderio del suo corpo

con la grandezza della tua dolcezza.

(Egli) odora il tuo santo profumo

come il figlio che respira il profumo del suo genitore;

il suo corpo esala il profumo della tua grazia

come il bambino, il profumo della sua nutrice.

A ogni istante tu lo consoli con la tua visione

quando mangia, nel suo cibo vede te

quando beve, tu risplendi nella sua bevanda

quando piange, tu appari nelle sue lacrimi.

Ovunque volga lo sguardo, ti scorge

cosicché, da ogni dove, (tu) moltiplichi le sue beatitudini

e non c’è nessuno che non ne percepisca la beatitudine

eccetto colui che è assolutamente privo della beatitudine.

 

 Giovanni Dalyāthā, Lettera 51, 2.4-6[1]

[1] Giovanni di Dalyatha, Mostrami la tua bellezza. Preghiere e lodi dalle Lettere, a cura di S. Chialà, Testi dei Padri della Chiesa, 25, Qiqajon, Magnano 1996, 31-33.

 

 

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