N.02
Marzo/Aprile 2020

Chi è come il Signore, nostro Dio? (Sal 113,5)

È una domanda retorica: chi può essere come Dio? Eppure, questa domanda, che tra lode e meraviglia affiora, in varie forme, dalle pagine bibliche e che costella il dialogo della preghiera di coloro che fanno esperienza di Dio, racchiude un paradosso. Da un lato essa è espressione dell’incomparabilità e della trascendenza di Dio, dall’altro – con la presenza dell’aggettivo «nostro» e la sua carica affettiva – ne riconosce e afferma il legame con la vicenda umana.

«Chi è come te, tra gli dei, Signore? Chi è come te, maestoso in santità, terribile nelle imprese, autore di prodigi?» (Es 15,11): così cantava il popolo di Israele avventurandosi in un nuovo cammino, dopo aver sperimentato l’azione di Dio a suo favore, sotto forma di una vittoria insperata, contro nemici più forti, più equipaggiati e più organizzati di lui. Quella notte, al Mar Rosso, per la verità, gli Israeliti non capirono nulla ed ebbero molta paura: solo al mattino riconobbero, dai segni, il passaggio, l’azione, la potenza e la grandezza di colui che aveva raccolto il loro grido e aveva agito. Da lì iniziarono a conoscere il Signore come un Dio, le cui opere e i cui prodigi non possono essere eguagliati da nessun altro dio (cfr. Dt 3,4; Sal 40,6; 71,19; 86,8; 89,7-9, ecc.), e, al contempo, iniziarono a conoscere se stessi, come identificati e definiti dalla relazione con un tale Dio, che si fa vicino: «Quale grande nazione ha gli dei così vicino a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?» (Dt 4,7). È sempre questo il primo passo del cammino: sperimentare in qualche modo l’azione di Dio a proprio favore e accorgersi che Dio è vicino; scoprire che egli non teme di accompagnare l’uomo in ogni sentiero, persino quelli più lontani dalle sue vie, per farsi conoscere profondamente nella sua fedeltà, che si spinge fino alla misericordia, al perdono, al perdere se stesso per recuperare la relazione.

«Chi è come il Signore, nostro Dio?». L’incomparabilità divina, la sua unicità, non è l’unica nota della sua trascendenza e non lo rinchiude nella solitaria superiorità di chi è impassibile e indifferente. Al contrario, nel Salmo 113, Dio che «siede nell’alto» (Sal 113,5) è presentato nel medesimo tempo come colui che «si china a guardare sui cieli e sulla terra» (Sal 113,6); entrambe le azioni sono espresse in ebraico con participi, cioè come attività permanenti e universali, che caratterizzano stabilmente Dio. Se allargare lo sguardo «sui cieli e sulla terra», è indice della sua sovranità, che si estende ovunque, «chinarsi a guardare» esprime profonda intenzionalità di ricerca: Dio non si limita a guardare, ma sta nei cieli e insieme «scende» a cercare l’uomo.

L’unicità di Dio, che non può essere eguagliata, è racchiusa nel paradosso della sua trascendenza immanente, che si concretizza nel movimento che la tradizione teologica e spirituale ha chiamato con una parola che oggi non suona così positiva, come lo è nel suo significato etimologico: condiscendenza. Se oggi, infatti, l’atteggiamento condiscendente è quello di chi manifesta una certa indulgenza e tolleranza acconsentendo ai desideri altrui, ma mantenendosi in posizione di superiorità, la condiscendenza divina, la synkatàbasis, indica il venire (bainō) di Dio, il suo abbassarsi (katà) per stare con (syn) l’uomo. La grandezza del nostro Dio è quella di chi si umilia abbassandosi, andando verso l’uomo, per sollevare e dare dignità agli ultimi, ai poveri, a coloro cui la vita e gli uomini hanno tolto ogni diritto (cfr. Sal 113,6-9).

«Chi è come il Signore, nostro Dio?». È una domanda retorica, ma non è retorico ciò che si nasconde dietro a quel «come», perché capovolge il modo in cui spesso si pensa a Dio: certamente l’umiltà non è la prima caratteristica che a lui si attribuisce. Eppure, Gesù l’ha presentata in luminosa evidenza: egli «non ritenne un privilegio essere come Dio» (Fil 2,6), ma lo portò a compimento, proprio «svuotando se stesso» (Fil 2,7), in quell’abbassarsi e umiliarsi per cercare l’uomo, che il Salmo 113 canta come proprio di Dio, fino a dare la vita.

 

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