N.03
Maggio/Giugno 2020

La televisione

La televisione è tecnologicamente quanto ideologicamente figlia del Novecento. Pronta già negli anni Venti, diventò elettrodomestico diffuso solo nei Cinquanta. In Italia, nei primi avanguardistici anni, la tv di Stato contribuì a fondare un paradigma esemplare, costruendo palinsesti nei quali l’intrattenimento era solo il corredo di un’offerta centrata su educazione, divulgazione culturale, informazione.  

 

FINESTRA SUL MONDO

La prima grande svolta, alla fine degli anni Settanta con l’avvento della televisione privata, anche detta “commerciale” e la conseguente metamorfosi. È questo il momento in cui l’Italia incontra, conosce e accoglie modelli provenienti d’oltreoceano centrati, tra le altre cose, su una forte presenza della componente pubblicitaria e sulla composizione dei palinsesti secondo l’idea di flusso, gradualmente sempre più estesi, fino a coprire l’intero arco delle ventiquattro ore.  

I due cambiamenti più recenti che hanno trasformato la televisione fino alla sua forma attuale sono entrambi inevitabilmente legati alle tecnologie digitali: da una parte il moltiplicarsi dei canali – che non di rado cercano di raccogliere una platea specifica, lavorando sul formato della “televisione tematica” – e una larvata interattività – la scelta della lingua, in alcuni casi la possibilità di partecipare a sondaggi o di gestire la regia di un reality show -; dall’altra l’evoluzione tecnologica del dispositivo (con un’esperienza casalinga sempre più vicina a quella della ala cinematografica grazie all’alta definizione, al 3D, a sistemi di amplificazione multicanale, e con il collegamento alla rete delle “smart tv) e la dispersione sugli schermi dei dispositivi più disparati grazie alla connettività e alle tecnologie della convergenza.   

Così, se per una verso il teleschermo ha ormai aggiornato la sua originaria caratterizzante natura di “finestra sul mondo”, entrando sempre di più anche nell’universo della rete, delle reti, per l’altro modelli e formasti della narrazione e della comunicazione sono stati esportati e dislocati su tutti o quasi tutti gli altri schermi non televisivi.  

 

QUALI TELESPETTATORI?

La televisione – forse non molto diversamente da quel che vale per il cinema nel nuovo contesto dell’audiovisivo – sopravvive dunque a una sua apparente trasformazione che sembra preludere alla fine, grazie a una sorta di sublimazione della sua natura profonda e una migrazione degli elementi originari che ne hanno fondato la diffusione nel più vasto contesto degli schermi connessi. Questo scenario tecnologico e culturale corrisponde, sul piano degli spettatori, alla coesistenza di almeno tre diverse fasce di pubblico assai diverse tra loro e che tuttavia costituiscono – nel nostro paese – la platea frammentata e dispersa dei prodotti televisivi. Il segmento numericamente più vasto, che in buona parte condiziona orari, generi, argomenti del palinsesto, soprattutto di quello della televisione generalista, è costituito dalle generazioni degli over cinquanta, che pensano e usano il teleschermo per lo più fuori dall’universo interconnesso delle reti e secondo una logica ancora legata alla programmazione di flusso e al ruolo fisico del teleschermo come luogo topico all’interno dell’ambiente domestico. Viene poi il segmento nel quale si ritrova la maggior parte della così detta “cittadinanza attiva”, uomini e donne tra i trenta e i cinquanta anni: cresciuti lungo l’evoluzione televisiva, iniziati al web e agli schermi diversi e ulteriori rispetto alla tv dopo la prima infanzia, sono questi gli spettatori più versatili che integrano la tradizione con una ricorso autonomo e trasversale alle tecnologie digitali, ai contenuti extra-televisivi, che mostrano un rapporto più critico e consapevole con l’offerta televisiva in generale e con i singoli pezzi della programmazione in particolare.  

Le giovani generazioni sono poi, coerentemente, molto frammentate al loro interno (quel che vale per i bambini sotto i dieci anni non vale affatto per gli adolescenti fino ai quattordici e così via), per lo più prive del legame automatico e affettivo al dispositivo – che ormai non è più considerabile “elettrodomestico” – sono tuttavia facilmente coinvolte da due delle dimensioni più sviluppate dalla produzione televisiva e paratelevisiva nel contemporaneo: il fascino spettacolare dell’evento (non necessariamente ristretto nell’ambito dello show d’intrattenimento, ma anzi, sempre più di frequente portato sul campo dell’informazione o della cronaca), e la consuetudine delle narrazioni seriali.  

 

FRUIZIONE INDIVIDUALE E ANTIRITUALE

La fruizione diventa occasionale, individuale, antirituale, non di rado fisicamente separata dagli altri, dall’altro. Lo scambio, le analisi e le narrazioni secondarie prodotte da questi due filoni della fruizione post-televisiva non alimentano più tanto l’interazione sociale “dal vero”, ma servono strumentalmente una più inerte certificazione di adeguatezza, sostengono una rappresentazione e una presenza “normali’ all’interno delle comunità e dei gruppi, dentro e fuori la rete.  

La televisione sembra dunque aver perso la dominazione esclusiva sul regno della “diretta”, del racconto del tempo presente durante il suo visibile scorrimento. Ma nella sovrabbondante produzione di contenuti televisivi e paratelevisivi – ormai sempre accessibili in differita e per frammenti ripetibili all’infinito – che sembrano arenarsi nella superfetazione di una realtà sempre più ridotta a feticcio, nella reiterazione inaridita e quasi quotidiana dello spettacolo come evento, dell’evento come spettacolo – una volta persa la ritualità e l’eccezionalità della festa -, nella riduzione del mondo a racconto in sé concluso – soddisfatto dell’ordine dato alle cose nobilitate dal belletto dello story telling più che spinto dalla necessità di creare cose nuove illuminate dallo sguardo dell’analisi e dell’invenzione -, nelle pieghe sempre più strette di questa esorbitante affabulazione audiovisiva, la televisione seguita a produrre sguardi eccentrici, idee nuove, opportunità, per quanto ristrette, per un’autoemancipazione dello spettatore più volenteroso.  

 

IL RACCONTO DI ALESSIO

– grafico, 30 anni

Sono cresciuto con l’abitudine di guardare la televisione insieme ai miei, a mia madre soprattutto. Un po’ era un modo di passare del tempo insieme, un po’ era un sottofondo costante della vita in casa.  

Poi sono cresciuto, ho cambiato stanza, ho iniziato a lavorare. La televisione è diventata un rito privato, l’accendevo soprattutto la sera, perché mi faceva compagnia, ho preso anche l’abitudine di addormentarmici davanti. Oggi le cose sono di nuovo cambiate: se c’è un programma che m’interessa, una serie di cui sento parlare, cerco in rete e vedo tutto quando ho tempo. Solo in caso di eventi eccezionali – il Festival di San Remo, una partita di calcio o un altro evento sportivo particolarmente atteso – mi rimetto davanti al teleschermo, magari insieme ad altri, e condivido la visione della diretta.  

 

 

Se hai trovato interessante questo articolo, leggi anche l’approfondimento La televisione!