N.05
Settembre/Ottobre 2020

Tecnologia

Almeno fino alla seconda rivoluzione industriale il termine “tecnologia” si riferiva più o meno fedelmente allo spettro semantico della sua origine etimologica (greca): in sintesi, la teoria dell’applicazione di procedimenti e strumenti tecnici alla soluzione di problemi pratici. Dalla seconda metà del secolo scorso “tecnologia” ha iniziato sempre più direttamente ad applicarsi agli strumenti e alle pratiche avanzate della tecnica, fino a quando, tra la fine del secolo scorso, e l’inizio di quello in corso, il termine ha iniziato a diffondersi, anche nel senso comune, soprattutto con riferimento ai dispositivi prima elettronici poi digitali messi a disposizione del pubblico di massa, entrati finalmente tra le categorie più rilevanti dell’economia di consumo. 

 

Un habitat pervasivo 

 

Parallelamente a una evoluzione semantica, la tecnologia ha sempre più allargato la sua presenza  tangibile nel mondo, estendendo e intensificando l’incidenza nella vita dei singoli oltre che dei gruppi, arrivando fino alla “dolce invasione” della sfera più intima e privata dei cittadini di qualsiasi censo e latitudine. Oggi, dagli apparecchi elettromedicali e dalle protesi robotiche fino ai sistemi informatizzati di controllo, i sistemi di comunicazione, le macchine per la cucina o i sistemi di sicurezza personale, non c’è quasi nessuna sfera della vita quotidiana che non sia abitata, operata e non di rado governata dalla “tecnologia”. 

Se per un adulto maturo è assai difficile e spesso dannoso astenersi dal contatto diretto e quotidiano con la tecnologia, per le giovani generazioni nate dalla fine del secolo scorso in poi la tecnologia è di fatto un habitat pervasivo e inevitabile che dallo schermo di un telefono passa senza soluzioni di continuità a quello di un orologio e poi di un calcolatore portatile, ramificandosi dentro il “cervello elettronico” di un’auto o il robot multifunzione connesso alla rete che si usa in cucina per preparare e cuocere il proprio cibo.  

In molta parte di quella che ancora si chiama comunemente “elettronica di consumo” c’è evidente la costruzione e l’appagamento di un desiderio: molto oltre la semplice efficienza strumentale, le forme, i colori, le esperienze percettive offerte all’utente – per non parlare delle grandi e piccole narrazioni e rappresentazioni che fioriscono loro intorno – hanno un che di sensuale, di volutamente appariscente e attraente, una promessa di piacere. E con il passare degli anni e il raffinarsi e l’espandersi del potenziale di questi dispositivi, l’ergonomia, la miniaturizzazione, la facilità d’impiego non hanno fatto altro che avvicinare sempre più i dispositivi tecnologici alla fisiologia oltre che alla forma del corpo umano. Un avvicinamento fisico che è sempre più un avvicinamento all’immaginazione e al pensiero – oltre che ai sensi – dell’utente, sempre più esplicitamente allettato dalle sirene di un mondo sottomesso al suo comando grazie all’integrazione delle sue facoltà attraverso l’ausilio di “protesi tecniche”.    

 

Passe-partout per decifrare il mondo 

 

Fin dal principio della sua storia ancora breve, la tecnologia di consumo è legata a doppio filo con quella della moda, del costume, delle più elementari e diffuse dinamiche sociali: un dispositivo ha o può avere sempre anche la valenza di oggetto ludico, “gadget”, status symbol, e addirittura contrassegno d’appartenenza a un gruppo, a una cerchia (tra gli esempi più facili il destino del marchio Apple e dei suoi prodotti informatici, possedere i quali coincideva e forse ancora coincide con una specifica identificazione sociale, professionale, economica, culturale, perfino politica). Eppure, oltre questa prima serie di attributi e sovrastrutture tanto numerosi e ingombranti, oltre la funzione sociale e lo statuto di bene di consumo, oltre la rete delle relazioni e il complesso delle influenze esterne, è nella sfera individuale e nella dimensione privata, non di rado perfino in quella intima, che la tecnologia incide sempre più vastamente, profondamente e in modo complesso. Oltre i vantaggi e i privilegi legati al possesso, sono sempre più spesso le facoltà offerte dall’accesso a definire e distinguere i prodotti tecnologici che anche su questo fronte sembrano sempre più direttamente intervenire sul piano esistenziale oltre che su quello meramente sociale.  

Un computer, uno “smart watch”, un palmare, un telefono, o perfino un paio di auricolari sono oggi mezzi di mediazione che determinano l’incontro con il mondo, come percezione, e con l’altro, come montaggio d’informazioni ed emozioni. Mezzi che, senza che ce ne rendiamo conto, predispongono esperienze sensoriali, cognitive, schemi rappresentativi e addirittura narrativi pronti per essere i passe-partout inavvertiti attraverso i quali decifrare e ordinare il mondo che ci circonda, orientando azioni, reazioni, scelte, sentimenti e giudizi.  

 

Una libertà operativa per saper distinguere 

 

Educazione, preparazione culturale, solidità e consapevolezza psicologica sono alcune delle condizioni che possono servire a un uso più sorvegliato e un rapporto meno ingenuo con la tecnologia, ma non bastano automaticamente a garantire la possibilità di scegliere e praticare un autentico laicismo tecnico, a mantenere una distanza di sicurezza e una autonomia reale. Forse solo una conoscenza e una frequentazione non superficiali dello spirito consentono l’assunzione di un punto di vista sufficientemente esterno alla dimensione immersiva che la tecnologia sempre più costruisce intorno all’individuo; una libertà operativa che sappia distinguere tra utilità e dispersione; una intelligenza che conduca lontano nella esplorazione di opportunità potenzialmente feconde.  

 

 Il racconto di Alberto  

imprenditore informatico  

 

Per prima cosa ho imparato dai compagni di scuola del liceo a seguire le uscite dei nuovi telefoni e di altri gadget. Per qualche anno ho partecipato anche io a questa specie di gara a chi riusciva a comprare per primo, a chi comprava il più bello, il più avanzato, il più raro. All’università ho cambiato giro di amicizie, ho iniziato a studiare le cose che poi mi avrebbero dato da vivere, ho assunto un punto di vista diverso: m’interessavano di più i codici, i programmi, quello che stava dentro alle macchine e molto meno l’hardware. Ho iniziato a costruirmi da solo non solo il mio studio ma anche le macchine (ndr. i computer) con i quali lavoro. Diciamo allora che per quanto passi molto tempo immerso nella programmazione in rete, per me tutto questo insieme di cose che sento spesso raccontare come un universo affascinante e pericoloso, lo vedo più come un meccanico vede un grande parcheggio: una enorme quantità di materiale utile a essere sfruttato come strumento per fare delle cose.  

 

 

 

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