N.01
Gennaio/Febbraio 2020

Il tatuaggio

 

Significati 

 

Charles Darwin scrive che non c’è regione del mondo dove i popoli originari non abbiano usato tatuaggi. Per altro verso, nel Levitico si legge un preciso ed esplicito divieto a diverse forme di modificazione e ornamento del corpo, tra le quali anche il tatuaggio.  

Coprire la pelle del proprio corpo con segni e figure è una delle pratiche più antiche nella storia dell’essere umano. Ma in tutti questi secoli, alle diverse latitudini, la medesima pratica non ha sempre avuto lo stesso significato, e anzi è bene ricordarsi che in ogni diverso periodo storico, a seconda della regione del mondo nella quale è stato praticato, il tatuaggio assume significati e implicazioni anche molto diverse tra loro. Basta pensare, restringendo il campo dell’attenzione, che nella nostra parte di continente, andando indietro anche solo di poche decine d’anni, il tatuaggio è stato considerato come segno di ignominia, contrassegno di colpa o di condotta considerata censurabile.  

 

Costume 

 

Da almeno un ventennio a questa parte, invece, incidere con inchiostri più o meno colorati simboli e figure sul proprio corpo è gradualmente diventato una parte del costume, pratica estetica a disposizione di sezioni anagraficamente, culturalmente, economicamente eterogenee della società. Così dalla dimensione quasi di accessorio d’ornamento – come un trucco o un gioiello – vissuta dagli adolescenti, ha aperto il suo potenziale espressivo e simbolico a una platea sempre più vasta di uomini e di donne che hanno cominciato a usarlo come strumento di autorappresentazione e di definizione pubblica della propria identità e come racconto della propria personalità e della propria storia.  

Il tatuaggio – che anticamente e tradizionalmente era considerato parte di un rito, segno compreso in un tessuto culturale spesso a carattere religioso, elemento interno a una rete sociale e condivisa di significati e di senso – è oggi un’opzione individuale che, anche quando motivata o influenzata dalle regole del costume e dalle tendenze della moda – viene messa in pratica da soli, all’interno di una cornice tra il medicale e l’artigianale.  

 

Questione di aspetto 

 

Oltre il semplice acquisto consumistico di un gadget permanente impresso sul proprio corpo, il tatuaggio assume forme diverse che ondeggiano tra l’atto di autodeterminazione sociale o esistenziale e la modificazione del proprio aspetto fisico in funzione estetica. Al tatuaggio si ricorre per sancire un evento, per rendere duraturo il ricordo di un traguardo raggiunto, una relazione iniziata, o anche per celebrare un momento difficile. Con un tatuaggio si può rappresentare un tributo d’onore o un gesto d’amore, sintetizzare un pezzo della propria esistenza, dare forma permanente alla decisione di una nuova fase esistenziale. La questione estetica è comunque sempre centrale – la forma delle immagini che si incidono sulla pelle ne determina ad esempio la posizione, la dimensione -, non di rado essa prevale sul resto.  

Il tatuaggio allora può assumere il valore di vestimento permanente, copertura che caratterizza, rende riconoscibili e originali e al contempo adorna, abbellisce, fino all’intensificazione dell’attrattiva fisica sul piano più esplicitamente sessuale.  

È però sempre più diffusa un’accezione ancora diversa della funzione estetica del tatuaggio: come per altre pratiche che modificano il corpo in direzione del compimento di un preciso piano estetico, così il tatuaggio può concorrere a rendere il corpo sempre più radicalmente oggetto, materia, cosa neutra da sottoporre a rettifica in funzione di una “artificazione” (il termine è di Paolo Fabbri, semiologo).   

 

Il corpo, una bacheca 

 

Nel tempo poi dello storytelling che esonda e viene travasato in quasi tutti gli ambiti dell’esperienza umana, dalla politica alla educazione religiosa, il tatuaggio – inevitabilmente – assume anche una forte valenza narrativa e autonarrativa: il corpo, da tela o massa plasmabile, diviene bacheca o diario, raccogliendo serie di simboli, date, citazioni, intesi come capitoli di un racconto per frammenti.  

Più in generale, in un momento in cui la trasgressione della regola si sostituisce stabilmente alla regola che afferma di voler infrangere, il tatuaggio è sempre più consuetudine diffusa di conformazione a un modello generale e sempre meno segno di una differenza, atto d’appartenenza a una vera comunità.  

Al rito sembra si sostituisca l’adesione a una regola sociale sempre più implicita e stringente, mentre l’esibita natura permanente del tatuaggio più che esperienza esistenzialmente acquisita si trasforma impercettibilmente in tentativo, prova, assaggio di una perennità sempre più reversibile (grazie e interventi di rimozione chirurgica sempre più efficaci e accessibili).  

 

 

 

 

Valerio, 21anni, si racconta… 

 

Ho iniziato a tatuarmi a 16 anni, oggi ne ho 20. Ho iniziato un po’ per entrare nella vita adulta, un po’ per moda. Ho continuato negli anni, spazio libero sul mio corpo non ne è rimasto molto. Il mio primo tatuaggio – un teschio in stile messicano – l’ho fatto fare da un tatuatore con il quale ho costruito un rapporto di fiducia che è proseguito fino a oggi.  

All’inizio avevo un po’ d’ansia, oggi per me è una cosa normale. Metà dei miei tatuaggi li ho fatti per moda, per bellezza, l’altra metà per esprimere un significato personale, un tributo all’amicizia, o ai miei genitori: sul collo ho un ragno che, quando compare senza ragnatela, è un simbolo d’indipendenza.  

Pentimenti non ne ho, ripensamenti sì: alcune cose le farei diversamente.  

 

 

 

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